Esteri
Omicidio Rocchelli-Mironov, se viene meno l’oltre ogni ragionevole dubbio

Il 12 luglio 2019 la Corte d’Assise di Pavia ha condannato il soldato Vitaly Markiv a 24 anni di reclusione per l’omicidio del fotoreporter Andrea Rocchelli e del giornalista e attivista Andrei Mironov. Una sentenza di condanna pronunciata oltre ogni ragionevole dubbio? Così dovrebbe essere, stando a uno dei più importanti princìpi che garantiscono il funzionamento del nostro Stato di diritto.
La nostra giustizia, però, seppure con tanto di garanzie processuali che per fortuna non restano solo sulla carta come accade altrove, non è infallibile. La nostra magistratura, seppure indipendente, a differenza di altri Paesi anche a noi troppo vicini, non opera in una campana di vetro, ma nel contesto sociale che abbiamo creato.
L’uccisione di Andrea Rocchelli e di Andrei Mironov avviene in uno degli scenari più complicati e più polarizzati dei nostri tempi: il Donbass. Nonostante quanto stia accadendo dal 2014 in quella regione dell’Ucraina orientale sia una vera e propria guerra, non se ne parla abbastanza e, quelle poche volte che lo si fa, facilmente si cade in errori di narrazione, spesso a causa delle operazioni propagandistiche provenienti del Cremlino. Proprio in quel conflitto tanto silenzioso quanto sanguinoso, il 24 maggio 2014 perdono la vita i due giornalisti svolgendo il proprio lavoro, coraggiosamente e con il solo obiettivo di poter raccontare al mondo quanto avevano visto con i loro occhi, senza alcun filtro.
Ricostruire quanto accaduto in quel drammatico giorno di guerra è ovviamente impresa ardua, che diventa rischiosa se, alle difficoltà sistemiche, si aggiunge poi un contesto sociale e mediatico impregnato di false narrazioni e pregiudizi ideologici. Lo scenario in cui si svolgono i fatti, che viene raccontato in aula nel corso del primo grado del processo a Vitaly Markiv e che si legge nella sentenza, è di fatto il riflesso di quanto è stato riportato dalla gran parte dei media. A dimostrarlo c’è un’accusa basata esclusivamente su un articolo pubblicato dal Corriere della Sera, che viene dal PM acquisita come “confessione stragiudiziale” dell’imputato. Tale articolo, a firma di una giornalista freelance, viene pubblicato con dei virgolettati, giornalisticamente usati per riportare con esattezza le parole pronunciate, ma che poi l’autrice stessa in udienza indica come “senso generale di quello che è stato detto”. Oltre a questa approssimazione vengono, nel corso del processo, evidenziate diverse inesattezze presenti nell’articolo, come ad esempio il ruolo di Markiv che, da semplice soldato della Guardia Nazionale ucraina, viene descritto come capitano dell’esercito.
Errori, questi, che possono sembrare di poco conto, ma che non lo sono affatto se il contesto di cui parliamo è quello di un conflitto armato. Infatti, la Guardia Nazionale ucraina non ha in dotazione l’artiglieria pesante, motivo per cui, una volta chiariti questi punti cruciali in sede processuale, è stato necessario cambiare il capo d’imputazione: da autore diretto, Markiv è diventato colui che avrebbe dato ordine di sparare.
Intanto, mentre si cerca di mettere delle toppe ai primi errori entrati in aula, l’imputato da presunto innocente diventa il presunto colpevole e tutto il processo si svolge come se si dovesse dimostrare non la sua colpevolezza ma la sua innocenza. L’informazione circolata nei due anni tra l’arresto di Markiv, il 30 giugno 2017, e la sua condanna è stata scarsa e, salvo pochissimi casi, gravemente inaccurata. I pregiudizi ideologici, le approssimazioni, gli errori, le affermazioni tendenziose che ritraggono fin da subito Vitaly Markiv – secondo la nostra Costituzione innocente fino a sentenza definitiva – come l’assassino, sono tutti elementi che hanno contribuito alla costruzione dello scenario sociale e mediatico in cui si è svolto processo. Che la narrazione distorta e confusa del contesto in cui sono avvenuti i fatti abbia influenzato il processo è dimostrato non solo dalla “confessione stragiudiziale”, ma anche dalla sentenza, nella quale si confondono addirittura i movimenti dell’EuroMaidan (dell’inverno 2013-2014) con la dichiarazione di indipendenza dell’Ucraina (del 1991). Le dinamiche che ne fuoriescono sono chiaramente quelle di un processo dove prevale una logica inquisitoria e basata su emotività: Markiv, con doppia cittadinanza ucraina e italiana, quindi processabile in Italia, è il colpevole perfetto. Se da una parte è importante ricordare che i processi si celebrano nelle aule dei tribunali e che le nostre personali opinioni in merito devono rimanere fuori, è anche necessario sottolineare che i processi si seguono e le sentenze si leggono, ed è nostro dovere intervenire se, sulla base dei fatti, e non delle sensazioni o delle emozioni, emergono errori. Perché se esiste qualcosa di più tragico di una morte ingiusta, è quella di condannare e incarcerare per essa un innocente.
Per questo, per i fatti che sono emersi dalle carte del processo, per il dovere che abbiamo di difendere il nostro Stato di diritto e garantire che ogni suo principio sia applicato, come FIDU (Federazione Italiana Diritti Umani) abbiamo scelto sin dall’inizio di patrocinare e promuovere il meritevole lavoro di un gruppo di giornalisti indipendenti che, insieme a esperti anche di materie militari, hanno lavorato instancabilmente a questo caso. Le ricostruzioni puntuali, fin dove la scienza l’ha permesso, le testimonianze chiave raccolte sul posto (sfuggite agli inquirenti), il vuoto lasciato da chi, seppur coinvolto nel caso, non ha voluto contribuire, sono tutti elementi di un film-documentario, The Wrong Place, che uscirà questo autunno. Un giornalismo cosciente del suo ruolo e che si contrappone a quello sciatto che ha predominato in questa vicenda giudiziaria nella sua prima parte. Grazie a questi giornalisti e ai pochi che non hanno voluto accettare le lacune, gli errori e le debolezze di una sentenza pasticciata, quel clima inquinato dalla cattiva informazione è forse cambiato o quantomeno è quello che ci auguriamo avvenga dal prossimo 29 settembre, quando a Milano si aprirà il processo di secondo grado.
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