Ma il Movimento Cinque Stelle può essere considerato una forza politica inquadrabile nell’area della sinistra? Il dibattito è in corso, con voci contrastanti. Peraltro, alcuni studi suggeriscono che la maggioranza degli elettori percepiscano il M5S proprio come componente della sinistra, a tutti gli effetti. E molti osservatori e commentatori degli avvenimenti del nostro paese – nonché numerosi politici – la pensano così. E sollecitano, per esempio, la riproposizione dell’alleanza del Pd con i 5 stelle come il complimento di quello che, fino a poco tempo fa, era denominato il “campo largo” dell’area riformista.

Insomma, secondo costoro, i grillini avrebbero finito, con la direzione di Conte, col costituire una forza “di sinistra”, con la quale, però, si può – anzi è utile -dialogare e collaborare, anche perché questa è la realtà di molte entità di governo locali, più o meno grandi. In questa sede non entriamo nel dibattito politico sulla collocazione o meno dei 5stelle nell’area di “sinistra”. Ma vogliamo sottolineare un’altra caratteristica rilevante della base grillina che, forse, può essere addirittura considerata prevalente. Ci sembra cioè che il relativo successo dei grillini (non certo rispetto al 2018, ma quantomeno in confronto a quanto emergeva dai sondaggi condotti nei mesi precedenti al voto del 25 settembre scorso) sia ascrivibile in buona misura anche alla sua caratterizzazione territoriale.

Se si guarda infatti alla distribuzione geografica del voto grillino alle ultime elezioni politiche, si nota facilmente come il suo consenso sia concentrato quasi esclusivamente nelle regioni del centro e del Sud e Isole. Nel meridione, come è stato sottolineato da molti osservatori, i 5stelle costituiscono di gran lunga la prima forza politica. Viceversa, essi ottengono pochissimi voti nelle regioni settentrionali. Si sa che le culture politiche nel Sud del Nord differiscono profondamente da moltissimi anni. Pur senza voler fare generalizzazioni inopportune, è ragionevole sostenere che la cultura meridionale del voto sia spesso caratterizzata, assai più che al nord, da quello che a suo tempo Arturo Parisi e Gianfranco Pasquino avevano chiamato il “voto di scambio”, cioè una scelta elettorale effettuata non tanto seguendo una visione socio-politica o una appartenenza di partito, quanto con l’aspirazione di ottenere un ritorno più o meno immediato, spesso in termini economici, accrescendo cioè il proprio benessere o ridimensionando la propria situazione di malessere, “in cambio” del proprio voto.

Seguendo questa logica molti elettori meridionali hanno scelto via via di votare per partiti diversi. La mobilità – e l’infedeltà – elettorale sono assai più diffuse al Sud, come dimostrano peraltro anche le recenti analisi sui flussi di voto. Peraltro, la campagna elettorale del leader dei 5 Stelle Giuseppe Conte è stata volta prevalentemente proprio in questo senso: promettendo in primo luogo la conservazione o l’ampliamento del reddito di cittadinanza, ma anche una serie di benefici ulteriori da ricevere “gratuitamente” (è questa una delle espressioni maggiormente usate dal leader grillino). Naturalmente, non tutti i voti per i 5 stelle sono originati da questi motivi (né, ovviamente, tutti i residenti del meridione adottano una logica “di scambio”. Anzi nel Sud sono nate tradizioni politiche di ampio spessore).

Ma una parte consistente dei voti ai 5s entra probabilmente in questa logica. Lo suggeriscono anche le straordinarie corrispondenze tra i suffragi per il M5s e il numero di percettori del reddito di cittadinanza. Il che, a sua volta, può far pensare a una sorta di voto “di scambio”. La campagna di Conte, come si è visto, ha reso molto bene in termini di consensi. Nulla di male, evidentemente. Ma questo costituisce un fenomeno che ci permette appunto di considerare il voto per il Movimento 5 Stelle come segnatamente “meridionale”, al di là della sua (discutibile) collocazione sull’asse sinistra-destra.

Tutto ciò dovrebbe aprire una riflessione meditata nel Pd. La sua sconfitta alle elezioni di settembre è dovuta verosimilmente in gran parte alla mancanza di segnali chiari rivolti agli elettori, ma anche al suo interno. Il partito guidato da Letta è stato l’unico a sostenere il governo Draghi senza se e senza ma. E infatti è stato il ruolo di Conte nella caduta del governo a luglio a produrre la rottura con i M5S. Dopo la sconfitta, il Pd sembra oggi chiaramente diviso circa la sua posizione e le alleanze che ne discendono. Esso deve ragionare sulle cause che hanno spinto larga parte della sua storica forza sociale di riferimento, la “classe operaia”, a votare per partiti di destra, nel Nord del paese, mentre le classi sociali più deboli facevano la scelta dell’assistenzialismo.

Se il Pd si limita a restare in mezzo al guado fra diverse posizioni, si limiterà, come ha scritto Michele Salvati sul Foglio, a mettere al posto di un capo, di un leader con una linea chiara, un capro espiatorio di una oligarchia rissosa che si condanna alla lenta estinzione. Che il Pd si schieri decisamente per una alleanza con Conte sembra però improbabile, poiché questa scelta coinciderebbe con una subordinazione di quello che è rimasto della sinistra italiana alla leadership di Conte. Ma di qui alle prossime elezioni politiche passerà probabilmente molta acqua sotto i ponti della politica.

Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino

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