Dopo la poco fortunata metafora degli “occhi di tigre” richiesti ai candidati e militanti che si incamminavano verso una sconfitta sicura, in direzione Letta ha temerariamente sfidato la cattiva sorte e ne ha lanciata un’altra, quella di “partito pugnace”. In tempi di costruzione di un governo che vede alla guida la destra radicale, forse la nuova metafora che recupera -direbbe Machiavelli– “l’obrobrio delle parole” è destinata a raccogliere miglior fortuna. Non è un’impresa proibitiva, dinanzi alla inadeguatezza del ceto politico della destra confermata dalle prime mosse dei vincitori, quella di “apiccare la zuffa” e organizzare il netto profilo di un partito di opposizione.

Mentre il sindacato è ancora afono e privo di curiosità per la politica, non ha partecipato alla contesa elettorale e adesso si sforza di prendere sul serio l’apertura di Giorgia Meloni ai corpi intermedi, il Pd assume come proprio destino la funzione di opposizione che si sviluppa entro situazioni di disagio che la crisi bellica approfondisce sempre più. Questo inedito ruolo di combattimento, che in verità non ha mai gradito, preferendogli l’arte della scomposizione parlamentare dello schieramento avversario come misura propedeutica alla entrata in scena dei responsabili in servizio permanente alla guida dei ministeri, ora è invocato come missione salvifica.

Non basta però dire opposizione per avere in mano la carta magica capace di curare le tante ferite. È necessario precisare a cosa ci si oppone. Ha ragione Letta a cogliere come causa immediata della sconfitta lo scoppio della guerra con le sue pesanti ricadute sociali. Se questa è la cesura cruciale, che ha determinato la metamorfosi del governo tecnico da artefice di politiche espansive nel solco del cosiddetto “debito buono” in un esecutivo che impone le restrizioni dell’economia di guerra e della recessione, incomprensibile è stato però l’accanimento del Pd nel rivendicare come tratto distintivo il programma dell’agenda Draghi, che certo non possedeva una identitaria connotazione politica.

Questo richiamo all’esperienza di governo avrebbe di sicuro continuato a funzionare a chiaro vantaggio del Pd (come ha fatto puntualmente in tutte le tornate amministrative che hanno preceduto il voto politico) a condizioni generali invariate. Con l’impatto della guerra nella vita reale, il connotato sociale del governo impegnato nell’efficace allocazione delle grandi risorse europee è invece velocemente sfumato. E l’attivismo atlantico, che Draghi ha enfatizzato con un dinamismo anche comunicativo a sostegno delle armi e a rimozione dello spazio della diplomazia, è stato percepito da ampie porzioni di pubblica opinione come una prova di cecità rispetto al disagio, alla morsa dura dell’inflazione e agli spettri della recessione.

La guerra, con i suoi costi, ha trasformato Draghi in un nuovo Monti, cioè nella guida di un governo tecnico che produce una forte emergenza sociale. Chi ha staccato la spina all’esecutivo non a caso ha incassato una significativa affermazione elettorale. Nel corpo elettorale non c’era alcuna volontà di vendicare il governo affondato da un manipolo di irresponsabili. Il costo della instabilità politica non superava la sensazione di una stagione ormai finita. Le sorti di Draghi non coincidevano più con le ragioni della ristrutturazione e razionalizzazione dell’economia. L’indifferenza con la quale la sua caduta è stata accolta ha scaricato l’arma principale con la quale il Pd ha affrontato lo scontro elettorale.

Anche adesso che percepisce il ruolo fondamentale della paura legata alla guerra e alle sue conseguenze economiche nel determinare l’orientamento delle opinioni, Letta non ne ricava la necessità di pronunciare tutte le parole inopinatamente rimosse, cioè pace, negoziato, soluzione politica alla escalation atomica. Il travaso di voti verso Conte, che pure aveva votato per l’invio di armi e sostenuto tutte le sanzioni economiche varate dal governo, è giustificato (anche) dalla reazione sbigottita di potenziali elettori dinanzi alla chiusura nella superbia di un atlantismo passivo e rassegnato. Una correzione di analisi e di iniziativa su questo tema si impone e la sintonia con un movimento per la pace che sta nascendo è anzi condizione pregiudiziale per il recupero di uno spirito di opposizione.

Alla guerra come causa immediata della sconfitta occorre aggiungere anche l’accumulo di nodi di più lunga durata che il Pd non ha mai sciolto. Letta esclude la possibilità di cambiare il nome (e il simbolo). Se però al congresso non si intende arrivare con una rassegnata e interminabile recriminazione sulla gravità della sconfitta, una prospettiva dinamica, un principio di speranza bisogna pur evocarlo. L’aggiunta di un riferimento esplicito al socialismo, al laburismo, alla sinistra potrebbe funzionare come una molla per precisare l’ideologia del partito e conferire alle future assise una capacità attrattiva. Il rischio, archiviando il tema del nome-identità, è di celebrare il congresso con l’accanimento infinito nel rievocare il peso delle ferite che si intendono lasciar cicatrizzare ricorrendo ad un semplice salto generazionale.

Sia nelle varianti di Orlando, Cuperlo o Provenzano (più sensibili al lavoro, al radicamento nel conflitto sociale, alla questione ideologica) che in quelle di Bonaccini,  Nardella o Orfini (più attente alla conquista dell’autonomia politica rispetto alle cessioni di zone di competenza riservate agli alleati da intercettare), le culture politiche che si candidano, al di là dell’investitura del nuovo segretario, a guidare il rilancio del Pd sono in grado di gestire il compimento in senso socialista-laburista del partito. Se non si intende delegare la questione “sociale” al M5s, facendone una sua esclusiva terra di conquista demagogica per l’incapacità del Pd di offrire una autonoma lettura delle contraddizioni del tardo-capitalismo, il nome e l’identità non sono opzioni irrilevanti.

È evidente che l’identità laburista o socialista rappresenta uno sbocco quasi inevitabile dinanzi al consolidamento del partito di Renzi e Calenda che già occupa lo spazio liberaldemocratico. Un Pd che, senza spezzare il legame con le culture riformiste, si stanzia con più coerenza nel territorio socialdemocratico deve nel contempo concepire un modello di partito più solido, che attualmente sopravvive, e in modo parziale, solo in Emilia e in alcune grandi città. Le primarie hanno disegnato un partito liquido. Alla centralizzazione apparente del leader, che concorre per la premiership e abbandona lo scettro in caso di obiettivo Palazzo Chigi mancato alle urne, si aggiunge una decentralizzazione estrema che affida la piena sovranità ai signori locali (con lo spettacolo poco edificante di “governatori” meridionali intoccabili che invitano a votare per altri partiti).

Il male di vivere del Pd non risiede nel correntismo in quanto tale (la coesistenza di sensibilità plurali nei livelli centrali di un’organizzazione di partito è un fattore positivo), ma nell’assenza di un’autentica vita politico-culturale nei livelli locali. Soprattutto nei territori centro-meridionali, in ambiti ormai sfuggiti al controllo organizzativo, sgomitano personaggi ambigui, con a fianco cordate spregiudicate necessarie per la conquista di prospettive autonome di carriera. Invece che nell’americanata delle primarie, che si convertono nel regicidio di ogni segretario perdente, un partito convalescente dovrebbe ricompattarsi. Sarebbe molto più efficace la condivisione, da parte delle correnti più influenti, di una leadership da tutti riconosciuta nel suo valore ricostruttivo. Un capo espresso dalle “oligarchie” è più forte perché non convive con l’immagine della condanna all’oblio al primo incidente elettorale.

Non serve per questo un generico salto generazionale. Da evitare è anche la sceneggiata di autocandidature comunicate in forme alquanto bizzarre. Occorre un chiarimento esplicito, con tesi, proposte programmatiche, soluzioni organizzative, confronti pubblici con i militanti, gli amministratori. Il Pd ha la fortuna di governare in circa il 70% dei Comuni e di disporre al centro di ottime figure di professionisti politici cui affidarsi per risalire la china. Dall’autonomismo identitario di Bonaccini al conflittualismo della sinistra di Orlando ed altri, non mancano i profili giusti per tentare una celere ripresa. Avrebbe tutto da guadagnare il Nazareno se, invece delle passeggiate attorno ai gazebo (non hanno molto senso per un partito del 19% che va alla ricerca di una identità prima delle prove per la costruzione di una coalizione), si celebrasse un congresso competitivo ma responsabile, capace di esprimere una leadership condivisa e di dare soluzione al ginepraio identitario.

Lo stesso Bonaccini, che probabilmente la spunterebbe in una gara aperta ai passanti con due euro in mano, anche per il più forte senso autonomistico che incarna rispetto ai temuti rischi di alleanze che appaiono come preventivi cedimenti di influenza, trarrebbe dei vantaggi politici da un congresso di tipo più tradizionale. Le primarie, infatti, danno solo l’illusione di un leader affrancato dalle richieste dei caminetti. Molto più forte appare un capo politico la cui funzione di direzione è riconosciuta in un rigoroso processo di investitura condiviso dalle “oligarchie” e dai militanti.