Esistono aspetti paradossali nella confusa discussione che si è aperta nei partiti in seguito ai risultati delle elezioni. Il partito più contento è il movimento 5 stelle che è quello che ha perso più voti. Quello che ne ha persi di meno cioè il Pd, è quello nel quale si è aperta una crisi politica profonda e nel quale di fatto il suo segretario si è dimesso. Nella Lega che ha perso circa la metà dei voti invece Matteo Salvini cerca di far finta di niente. A sua volta la forza dei sondaggi sbagliati che la condannavano al 4-5% ha consentito a Forza Italia cantare vittoria anche se li ha anch’essa sostanzialmente dimezzati rispetto alle elezioni politiche del 2018.

Ciò detto concentriamo la nostra attenzione sul Pd che, pur essendo il partito che ha perso meno voti, è quello che è entrato più in crisi perché è andato incontro a una sconfitta politica. Il Pd si è dimostrato incapace di gestire un sistema elettorale assurdo, perché è un misto di maggioritario e di proporzionale che il centrodestra invece ha gestito al meglio pur essendo attraversato da profonde contraddizioni che stanno emergendo anche adesso nella fase di formazione del governo. In effetti il Pd, che è il responsabile principale della attuale legge elettorale, di fronte alla proposta grillina del taglio dei parlamentari che ne accentuava tutti i difetti si è mosso facendosi ispirare dal motto “Parigi val bene una messa”: nella fattispecie la messa era il ritorno del Pd al governo che finora per esso è stato quello che il passaggio dal capitalismo al socialismo era l’obiettivo finale prima del Pci d’Italia e poi del Pci. Ma le cose non si fermano qui.

Nel momento in cui il Pd ha cambiato il suo voto negativo sul taglio dei parlamentari in voto positivo ha anche rivendicato il cambio della legge elettorale ma anche sotto la segreteria di Letta ha perseguito molto flebilmente quell’obiettivo, per cui su questo punto per il segretario dem, che durante la campagna elettorale si è lamentato della iniquità della legge, vale il motto: “chi è causa del suo mal pianga se stesso”.
La crisi politica in cui è entrato il Pd deriva da un complesso di elementi, alcuni per così dire, sociologici, altri politici, altri addirittura ideologici. Sul piano sociologico il voto pone enormi problemi al Pd: al netto del fatto che comunque il partito “tiene”, arrivando al 20 per cento, tuttavia esso da un lato arretra fin quasi a diventare minoritario nelle regioni rosse, dall’altro lato è del tutto minoritario nella classe operaia, fra i giovani, fra i poveri.

Tutto ciò è prodotto anche da due questioni di fondo, una riguardante la struttura del partito, l’altra prettamente politica. La prima attiene alla forma partito: il Pci praticava il cosiddetto centralismo democratico, che consentiva il dibattito ma vietava l’organizzazione in correnti. E però nel contempo aveva una cura ossessiva nell’organizzare e gestire il radicamento nella società, in primo luogo nella classe operaia. Invece il Pd è un partito fondato sulle correnti, ma non sul radicamento sistematico nella società. Il suo radicamento sociale reale è quello di un partito moderato-centrista (dipendenti pubblici, professionisti, abitanti nei quartieri centrali delle città, pensionati).

Il nodo fondamentale però è costituito da una enorme questione politica del tutto irrisolta dall’epoca del cambio di nome e che rimane tuttora per aria perché a fronte di una crisi politica che si sta traducendo anche in una sorta di crisi di nervi collettiva individuale vediamo che il dibattito del Pd rimane a mezz’aria, tenuto nel vuoto da eccessi di ideologismo e di sociologismo. Da questo punto di vista il documento degli intellettuali cattolici con prima firma Rosy Bindi accentua questa tendenza con un sociologismo di stampo pauperista. Invece in parte, sia pure con brutalità, il tema è affrontato all’esterno del Pd con il suo linguaggio aggressivo da Carlo Calenda nella sua lettera pubblicata su Repubblica.

A questo punto tentiamo di identificare qual è, dal nostro punto di vista e col nostro linguaggio, il problema di fondo. Non possiamo fare a meno di innestare nel magma assai confuso che ancora caratterizza il dibattito nel Pd una operazione semplificatrice che certamente ha il difetto di presentare elementi di schematismo ma che tuttavia qualora fosse affrontata consentirebbe di andare al cuore del problema e di affrontare di petto quella scelta di fondo che il Pds, la Margherita e poi il Pd hanno sempre cercato di evitare: l’opzione fra un partito riformista, europeista, Atlantico che per questo punta alla alleanza coi centristi riformisti quali Calenda, Renzi e +Europa, sul piano sindacale con la Cisl e con un pezzo di categorie imprenditoriali e del lavoro autonomo e sul lato opposto un partito massimalista, populista, giustizialista, pacifista che cerca l’alleanza con il M5S, con la Cgil di Landini, e con l’associazionismo più spinto sul terreno ambientale, dei diritti, e con le Ong di vario tipo.

Eccesso di schematismo? Può darsi. Ma ognuna di queste due forme partito avrebbe una interna coerenza, una mobilitazione esterna, una conseguente aggressività e fiducia nelle proprie convinzioni e per questo una notevole capacità di iniziativa politica. Al contrario invece la scelta finora fatta di combinare insieme spezzoni di opposto segno politico e culturale si risolve, come i fatti stanno dimostrando, in un sostanziale immobilismo. Questo immobilismo deriva da una sorta di abbraccio mortale fra persone e gruppi che hanno idee di segno opposto e che risolvono il tutto in un estenuante confronto fra correnti organizzate nel quale le differenze politiche e culturali vengono attutite e falsamente superate attraverso una distribuzione del potere così invasiva ed asfissiante, che non ha molto di diverso di quello che al suo tempo avveniva nella Dc che però razionalizzava il tutto in nome di un interclassismo che doveva attraverso di esso battere il classismo del Pci.

La scelta tra queste due opzioni di fondo (ognuna della quali implica poi molteplici approfondimenti culturali programmatici politici e organizzativi) probabilmente implicherebbe delle rotture con tutti i drammi e i rischi conseguenti. Ma invece il Pd per non farle rischia di logorarsi fino alla estenuazione, e alla conseguente estinzione se continua nella condizione attuale un partito né carne né pesce, un giorno riformista, un giorno massimalista, che oscilla nelle alleanze da Conte a Calenda, una sorta di ircocervo dalla identità cangiante. Finora il gruppo dirigente del Pd ha opportunisticamente evitato la scelta fra un rigoroso riformismo e un demagogico massimalismo, ma adesso la scelta viene imposta anche dall’esterno, dalle opzioni da fare di fronte alle crisi geopolitiche ed economiche che sì sovrappongono e dagli interventi politici di segno opposto, dal M5S di Conte, dal terzo polo di Calenda e di Renzi che a loro volta non accettano di essere collocati nello stesso pentolone e gestiti dai più furbi fra i dirigenti del Pd.

Nell’una e nell’altra delle combattive posizioni esterne al Partito democratico non ci sembra che esistono soggetti disposti a farsi gestire, per capirci, con la stessa metodologia usata da Zingaretti nella Regione Lazio per mettere insieme il Pd e i grillini centellinando la distribuzione del potere. Da un lato l’enorme difficoltà economica e sociale e i loro interpreti a livello associativo pongono enormi problemi di scelta: basta pensare alle questioni che il presidente della Confindustria Bonomi ha posto al governo di centrodestra ridicolizzando le sparate di Salvini e di Berlusconi sul piano fiscale che pensavano in quel modo di soddisfare i settori abbienti della società. Su un piano politico non è che da un lato Conte a nome del M5S e dall’altro Calenda e Renzi non pongono problemi di fondo da ogni punto di vista.

O il Pd fa i conti con il fatto che il riformismo, l’europeismo, l’atlantismo richiedono una serie di scelte e di battaglie politiche, e che il populismo, l’assistenzialismo, il neutralismo ne richiedono altre di opposto segno, e che le due tendenze non possono essere intrecciate e gestite attraverso un confronto fra correnti di partito che si risolve tutto in una distribuzione del potere nella assenza di una iniziativa politica che ha incisività solo se è caratterizzata da rigore e da una unilateralità. Ecco, il Pd è di fronte a questo tipo di scelte che vanno fatte pagando tutti i prezzi necessari. Se non lo fa rimanda solo nel tempo la sua lenta ma graduale e inesorabile estinzione.