Vestita di un rosa così tenue che nemmeno Kate Middleton. Con un trucco e parrucco che meno aggressivi non si può. Giorgia Meloni la campagna elettorale (quella vera) la fa sussurrando alle orecchie di chi il lavoro lo dà, non di chi lo cerca. Video con luce soffusa, tono fermo: «Siamo pronti a combattere la povertà investendo sul lavoro. Il reddito di cittadinanza ha fallito, vogliamo sostituirlo con uno strumento a tutela dei soggetti fragili. Chi può lavorare deve essere aiutato a trovare lavoro: è questo l’unico modo per sconfiggere davvero la povertà, non l’assistenzialismo». Tradotto: “fidatevi, lasciateci prendere palazzo Chigi e noi il reddito di cittadinanza lo aboliamo”.

Lo sapranno, nelle periferie povere traboccanti di voti a destra perché “la sinistra è radicalchic e la Meloni è popolare”, che il reddito di cittadinanza Io-Sono-Giorgia glielo toglie? Qualcuno nell’aborrito Pd-Ztl la vuole fare questa campagna elettorale e si darà la pena di andarglielo a spiegare prima che votino in massa FdI? Certo, i candidati di Fratelli d’Italia sembrano usciti da un toto ministri. Giulio Terzi di Sant’Agata (tipico nome su citofono di palazzone di borgata), Giulio Tremonti per Milano centro, Carlo Nordio da presentare in Veneto e l’abilissimo ex governatore Nello Musumeci che con siciliano senso del teatro ha mollato sul più bello la commedia delle elezioni regionali a Palermo per puntare al Parlamento. Poi l’immarcescibile democristiano Gianfranco Rotondi, riconvertitosi meloniano.

Nelle seconde file di Fratelli d’Italia la vittoria – macché vittoria: il trionfo – se lo sentono lì, a un passo, basta allungare una mano e coglierlo. I braccioni tatuati non si tengono. Fremono, scalpitano. C’è solo da aspettare il 25 settembre, dicono. E non è detto che staranno buoni fino ad allora. Lei no. Giorgia Meloni è tutta una pacatezza, tutto un sorriso rassicurante. Ma i manifesti elettorali somigliano troppo a quelli di Marionne Marechal (possibile che non ha un amico che glielo dice?), lei sulle foto da campagna ha una debolezza che tradisce sempre l’inganno. Chissà perché poi. Ha un piglio autentico che è un brand e invece finisce sempre per far incartare i muri d’Italia di una faccia che non sembra neanche la sua. Boh, misteri dell’anima.

I suoi alleati-nemici, quelli che ancora non hanno mai smesso di escogitare un piano per impedirle il promesso ingresso a palazzo Chigi, hanno liste meno sfolgoranti. I puristi di Forza Italia si vedono ricandidata deputata Marta Fascina. Matteo Salvini candida Bossi alla Camera, dove è più facile farlo eleggere che al Senato, e si fa fotografare abbracciato con il direttore di Rainews24 Paolo Petrecca, catapultatosi da lui in Calabria, e poi va a Forte de Marmi a farsi intervistare dal direttore del Tg2 Sangiuliano. Tanto per capire che aria tira in Rai. Se nel centrodestra (che di centro, a parte Rotondi, ha quasi nulla, tarata com’è sulla destra estrema) ci si scanna a porte chiuse, nel Pd è la Cambogia.

Una Cambogia sbattuta in faccia ai poveri elettori che magari qualche infimo litigio, qualche residuo battibecco se lo risparmierebbero pure. Invece niente. È il trionfo del modello Calenda. Si deve litigare tutto il tempo e rigorosamente in pubblico. Vietato tenersi qualcosa per sé.
E così l’incontenibile Cirinnà prima si lamenta del collegio non sicuro che Letta le ha rifilato e poi ci ripensa. Sempre usando paroloni. Mi batterò come una gladiatrice etc. Lo stesso fa Alessia Morani. Dopo aver rifiutato le due candidature assegnatele dal Pd «a sua insaputa», la deputata dem ha deciso di cambiare idea: «Ho ricevuto nelle ultime 24 ore una marea di telefonate e messaggi di persone che mi hanno manifestato un enorme affetto e stima. Sono francamente molto colpita da questa mobilitazione e non posso rimanere indifferente all’appello che mi viene rivolto» si sente in dovere di spiegare. «Tutti mi hanno detto che non posso rimanere in panchina nella partita più importante che dobbiamo giocare per il nostro paese. Sono una che combatte e non si spaventa anche di fronte alle battaglie difficili. Sono a disposizione della nostra comunità politica».

Ora, ripensamenti di candidate incerte e risse con Renzi a parte (ieri era il turno del capitolo Covid, Renzi: “Ogni mattina Letta si alza e decide di attaccare me. La differenza tra me e lui sapete qual è? Noi eravamo con Draghi e con la svolta di Figliuolo, lui voleva rimanere con Conte e Arcuri”) Letta ha un incubo: il 26 settembre. Se per il 26 settembre non gli riesce il giochetto di perdere senza straperdere, di perdere senza nemmeno poter dire “abbiamo aperto le porte di palazzo Chigi a Giorgia Meloni ma siamo il primo partito etc etc…” se ne torna dritto a Parigi col primo volo da Fiumicino ad insegnare dio sa cosa, forse pure scienze politiche.

Se Letta perde male, il finto bonaccione Stefano Bonaccini è dietro la porta pronto ad entrare inscena al suo posto. Il filogrillino Orlando non vede l’ora. Franceschini sempre capace di farsi tondo e quadrato è. Enrico Letta sta facendo una campagna elettorale incomprensibile ma sa che non si potrà negare un Congresso al Pd (l’ultimo è di tre anni fa). Sempre meglio di questo psicodramma a porte aperte sarà. Ed un Pd al Congresso dopo una batosta elettorale equivarrebbe per lui a delle inevitabili esequie politiche da segretario. Lontane dal placarsi anche le tempeste tra ex renziani rimasti nel Pd (utili anche ad assicurare al Pd rilevanza in Parlamento dopo la fuga di Renzi) esclusi dalle liste. La rabbia monta. Le battute su “chi la fa l’aspetti” pure. Una per tutti. Sandra Zampa, via twitter, riferita al 2018: “Vogliamo parlare delle cinque candidature come capolista di Maria Elena Boschi e un collegio uninominale a Bolzano?”.