Gli sbagli del segretario dem
Cosa ha sbagliato Enrico Letta: il no al fronte repubblicano ha spianato la strada alla Meloni
Tutto è cominciato mesi fa, al tempo della elezione del Presidente della Repubblica. La corsa di Draghi al Quirinale si ferma in un tunnel, le fibrillazioni pro e anti governo si moltiplicano, con la nascita del nuovo partito di Di Maio – impossibile escludere il via libera di Palazzo Chigi nella decisione del ministro degli Esteri – matura tra i grillini la decisione di mettere fine al governo Draghi. Sperano così di contenere le perdite, di rovesciare sondaggi che li danno in caduta libera. A destra, la strada è spianata: al voto per vincere e governare da soli.
Aveva ragione Nenni: non si fa politica con il rancore. Sì, perché a sinistra è stato il rancore a tracciare il campo di gioco. Il riavvicinamento tra Letta e Renzi, di cui sono stato testimone, si chiude in un lampo, non appena la campagna elettorale si avvicina. Perché? Mi avventuro in una previsione postuma: se il Pd avesse concluso un accordo con Italia Viva, come Renzi chiedeva di fare, Calenda non avrebbe avuto altra scelta che restare dov’era, alcuni collegi dell’Italia centrale e delle aree metropolitane del nord sarebbero stati contesi con ben altra possibilità di vittoria, l’esito degli eletti al Senato sarebbe stato diverso e probabilmente diversa sarebbe stata la maggioranza nella camera alta. Tant’è. I fatti, allora. Uno. L’Italia si scopre tripolare, più o meno come nel 2013 e nel 2018, ma con la differenza sostanziale che oggi c’è una maggioranza chiara del centrodestra in entrambe le Camere.
Insomma, si può governare secondo il mandato degli elettori. Due. Fratelli d’Italia è il partito, nell’intera Europa occidentale, che cresce di più dal dopoguerra: partiva dal 4,3%, raggiunge il 26% dei voti. Tre. La sinistra italiana è la più debole del continente quando, fino agli anni ‘90, occupava la posizione di testa. Quattro. La sinistra appena uscita dalle urne si è ulteriormente ristretta, è la più piccola dal 1946 (nel 2018, i voti reali erano notevolmente di più). Cinque: un astensionismo così elevato che ci allontana, quanto a partecipazione, dalle tradizionali democrazie europee (meno la Svizzera).
È di tutta evidenza che nel risultato non ha inciso il destino cinico e baro, hanno inciso le scelte sbagliate – sì, non dimentico il tradimento di Calenda, ma ricordo anche la disponibilità di Italia Viva, mai raccolta – ed una campagna elettorale ondivaga e povera di proposte attrattive. Ondivaga perché, con un’alleanza e con un Pd così sbilanciati a sinistra, si è conclusa con la messa in guardia dal pericolo Meloni, tema coltivato a intermittenza e intensificato nell’ultima settimana. Bene, ma se Fratelli d’Italia costituiva un pericolo per la democrazia, allora conveniva mettere in campo un “fronte repubblicano” fin dai giorni successivi alla crisi di governo. Letta non solo non ha imboccato questa strada ma ha addirittura cancellato gli alleati ospitati sotto il suo simbolo per andare allo scontro diretto, in perfetta solitudine, con Giorgia Meloni. Un errore fatale. Quel che è peggio una campagna elettorale povera di proposte. Non riesco a ricordare un solo argomento che abbia catturato l’attenzione degli elettori. Il clima? No. Il salario minimo? Nemmeno. La lotta alle superbollette del gas? Neanche.
Ora che, per l’appunto nel centenario della marcia su Roma, un partito con la fiamma nel cuore ha stravinto le elezioni, mi domando che fare.
Alla cavalcata liberista negli anni Ottanta nei paesi di cultura anglosassone, la sinistra europea rispose inventandosi la “terza via”. Partorita in Inghilterra da Tony Blair e sposata da Clinton, pian piano l’idea approdò sulle sponde del Mediterraneo. Prima ancora, a cavallo tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, socialismi e socialdemocrazie europee si spogliarono degli abiti marxisti e si costruirono l’immagine di forze di governo. E governarono. E oggi? Qual è la risposta ad una debacle senza uguali?
Non esito a dire la mia: il ritorno alle origini. Origini intese come attenzione agli ultimi attraverso politiche di maggiore giustizia sociale, di alfabetizzazione di massa (scuola, formazione, conoscenza) su cui innestare sensibilità per l’ambiente e tutela di radici e identità per fronteggiare una globalizzazione sguaiata. E poi, europeismo inteso come costruzione degli Stati Uniti d’Europa per non essere spettatori passivi nella sfida tra Usa e Cina che sta ridisegnando i rapporti di forza nel mondo.
La prima mossa spetta al Pd. C’è solo da auspicare che alla sconfitta non reagisca con semplici aggiustamenti di maniera, sostituendo il segretario al congresso senza immaginare un altro soggetto politico, senza prevedere un ancoraggio alle socialdemocrazie ed ai socialismi d’Europa con proiezioni evidenti in Italia, magari rifugiandosi in un accordo con i Cinque Stelle laddove dovrebbe aprirsi fino al punto da fuoriuscire dal binomio fondativo sinistra Dc/Ds che da anni mostra la corda. Ex malo bonum.
Le famiglie europee che si richiamano al socialismo umanitario e alla liberal democrazia devono dialogare, cooperare, stringere accordi, creare rapidamente osservatori comuni sia alla Camera che al Senato per affrontare con lungimiranza la traversata del deserto. Non offrire sponde alla destra radicale che in ottobre salirà le scale di Palazzo Chigi. Una mossa del cavallo per rinnovarsi profondamente.
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