Non c’è stata la rimonta. Ma neanche quel 20% che avrebbe consentito a Enrico Letta di vivere il post voto con un po’ più di tranquillità. Per molti è lui uno degli sconfitti. La percentuale si è fermata intorno al 19 per cento, poco più delle elezioni del 2018, ma troppo poco perché il segretario Pd possa andare avanti. «Il risultato? – ha commentato – Insoddisfacente. Ce l’abbiamo messa tutta, ma non è stato abbastanza». Lo aspettavano al varco, in quel gioco che a sinistra si pratica sempre molto bene: la ricerca del capro espiatorio, la caccia al colpevole. La mossa di ieri ha però messo un po’ le cose in ordine. Letta ha annunciato che a marzo ci sarà il congresso, ma che lui non si ricandida.

No, quindi, alle dimissioni immediate, come avrebbero voluto i cacciatori di teste, l’attuale segretario dem sarà lui stesso a traghettare il partito verso la scelta di una nuova guida. Sarà, ha spiegato «un congresso di profonda riflessione, sul concetto di un nuovo Pd che sia all’altezza di questa sfida epocale, di fronte a una destra che più destra non c’è mai stata. Assicurerò con spirito di servizio la guida del Pd fino al congresso a cui non mi presenterò da candidato». «Con questa destra, chi verrà dopo di me dovrà lavorare per un progetto che dia una alternativa alla maggioranza degli italiani. Non sono mai stato per la autosufficienza, non sono mai stato per l’isolamento, sono sempre stato per il dialogo. Sia per fare opposizione che per costruire l’alternativa: avremo delle elezioni in primavera e dovremo andare con uno schema che non dia campo libero alla destra. Gli elettori hanno detto la loro e spero che da oggi in poi si possa costruire questa alternativa». Letta non ha fatto finta di nulla come Matteo Salvini, la cui sconfitta è molto più cocente, ma sta gestendo bene il day after.

La promessa è quella di una opposizione dura al nuovo governo a trazione meloniana. «Faremo opposizione con tutte le nostre forze. Non permetteremo che l’Italia si stacchi dai valori europei e dai profondi valori della Costituzione. Quindi opposizione dura, intransigente e sforzo massimo da domani per pensare al futuro». Ha giocato tutto sulla strategia del voto utile, della difesa della Costituzione, ma la linea scelta non ha funzionato. Sicuramente non ha funzionato come il richiamo populista fatto dal tribuno Conte. Sugli ex alleati si è tolto qualche sassolino: «Ci aspettano giorni duri, per l’Italia. Se siamo arrivati al governo Meloni è a causa di Giuseppe Conte, che ha fatto cadere il governo ed è stato il punto scatenante». Parole dure anche contro Calenda definito «fuoco amico»: candidandosi contro Emma Bonino e arrivando terzo, ha impedito che la leader radicale venisse eletta all’uninominale. L’annuncio del congresso era atteso e già da settimane è scattato il toto nomi di chi potrebbe essere il successore. Tra i più gettonati Elly Schlein. La vice di Stefano Bonaccini avrebbe tutte le carte in regola: donna, femminista, ambientalista, giovane e brava, molto brava.

Il suo profilo potrebbe non piacere però a chi invece vuole giocare la scommessa riformista. E a questo punto che scatta proprio il nome di Bonaccini che finora si era rifiutato di farsi avanti per non andare contro Letta. Tra gli altri nomi anche quelli di Giuseppe Provenzano e Andrea Orlando. Dietro le quinte fa capolino il nome di Goffredo Bettini, da sempre non interessato alla propria candidatura ma prodigo nel muovere le pedine altrui. È lui che spingerebbe per Elly Schlein. Ma ancora prima dei nomi il punto vero è quale sarà la strategia che prevarrà per costruire “il nuovo Pd”. Le ipotesi in campo sono almeno tre. Quella di chi come Bettini ritorna sul luogo del delitto: il famoso campo largo che tanto tempo e voti ha fatto perdere ai dem. C’è chi, dopo la rimonta di Conte, che comunque perde la metà dei voti rispetto al 2018, pensa che l’alleanza con i 5 Stelle sia l’unica strada per rilanciare il partito democratico, considera i grillini di sinistra e non ha niente da obiettare sui toni turbopopulisti della campagna elettorale fatta dall’avvocato del popolo. È la strada che sembrerebbe piacere anche agli alleati Bonelli e Fratoianni, che incassano il 3,53 per cento circa e l’elezione al Senato di Ilaria Cucchi.

Sicuramente una bella notizia per chi in questi anni ha seguito il suo impegno affinché emergesse la verità sulla morte del fratello. La seconda ipotesi è quella che spinge verso il Terzo Polo, che però non ha raggiunto il risultato a doppia cifra come sbandierato da Calenda, che sembra più interessato a capire se si apriranno varchi per poter governare. Questa strada, altrettanto impervia, sposterebbe il Pd a destra ma avrebbe almeno il merito di fare i conti con il populismo, in un Paese dove questa propensione sembra non tramontare mai come dimostra la vittoria di Giorgia Meloni. C’è poi l’ultima chance, la più impervia, la più difficile. Quella di un Pd che si apre alla società civile e gioca la carta del rinnovamento non basandosi sulle alleanze ma sulla cultura politica: di sinistra, ambientalista, femminista, antipopulista. Le parole di ieri di Letta sembrerebbero chiudere definitivamente con Conte, che a sua volta replica: «Con noi dialogo difficile. Ha perso, niente capri espiatori», detto da uno che dal 2018 ha dimezzato i voti.

I dem hanno pagato la fedeltà al governo Draghi in una campagna elettorale dove facevano più presa le promesse e i sogni. Il risveglio potrebbe essere amaro per tutti gli italiani. Intanto lo è per l’alleato del Pd Luigi Di Maio che non è stato eletto all’uninominale e che resta fuori dal Parlamento. «Non ci sono “se”, “ma” o scuse da accampare – ha scritto su facebook – Abbiamo perso. Gli italiani non hanno considerato abbastanza maturo e valido il nostro progetto politico». Una brutta batosta. Resta fuori anche un altro big, Carlo Cottarelli, che perde contro Daniela Santanchè, così come è stato sconfitto Emanuele Fiano da Isabella Rauti. Fuori anche il costituzionalista Stefano Ceccanti. Fiato sospeso per +Europa che ha fatto una bella campagna elettorale. Perde Bonino, elegge Magi e Della Vedova, e chiede il riconteggio: mancano pochissimi voti per la fatidica soglia del 3%.

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