Bersaglio di una campagna ostile
Il PD scacci via gli avvoltoi, senza i dem non esiste la sinistra

Farebbe bene il Pd, mentre riflette su come superare la sua crisi, a guardarsi dai tanti avvoltoi che, travestiti da amichevoli consiglieri, ad altro non puntano se non a fiondarsi sui suoi resti. Per costoro, il Pd non è un partito incompiuto che, per una carenza di identità e di radicamento sociale, attraversa l’economia di guerra con il minibus elettrico. Il Nazareno ha un volto nemico perché conserva ancora l’odiata forma-partito. E quindi, malgrado la sua liquidità, appare comunque un ostacolo perché ha antichi riti, gruppi dirigenti, correnti, e non si riduce alla volontà di un leader singolo. Nel Pd, poi, è sempre possibile che si risveglino i quadri con alle spalle una scomoda cultura di sinistra.
Prima del voto, tutti gli articoli di Paolo Mieli erano un inno alla leadership di Letta raffigurata come “formidabile”. Appena si è fatta chiara la sconfitta della corsa solitaria, al segretario viene imputato di essere un “bolscevico”. All’encomio surreale subentra l’adulatoria esaltazione della “tosta” patriota della Garbatella, promossa a novella Thatcher. Il Corriere invoca il tecnico per commissariare la politica denunciata per aver fatto sprofondare il Paese in una emergenza economica. E poi, a servizio concluso con le politiche di risanamento, accarezza l’antipolitico di turno che si presenta all’incasso dopo la parentesi della neutralizzazione imposta dal vincolo esterno che rende esangue la sinistra. Anche nel 2013 il Corriere puntò su due cavalli pur di arginare Bersani sia sul versante del centro moderato che su quello della rabbia sociale: a quelle del tecnico, che “saliva” in politica costruendo un partito personale, aggiunse le gesta del comico nuotatore, che fece l’impresa dell’attraversamento dello Stretto in stile libero.
La grande stampa ha evocato a lungo Draghi. Serviva per rimettere le cose a posto dopo i foglietti svolazzanti del Conte 2 che allarmavano i governi europei. Dinanzi all’emergenza Covid avevano ceduto risorse per una mutualizzazione del debito e pretendevano un governo “migliore”. Ma, dopo che il governo del banchiere centrale affondava in piena economia di guerra, sono proprio i grandi giornali a ordinare l’immediata ricollocazione attorno alla madre e cristiana nonché nuova eroina dell’atlantismo. La possibilità che la crisi del Pd riporti a galla brutte sensibilità di sinistra scatena una palese campagna ostile. In una battaglia che i media hanno raffigurato ogni minuto come persa già in partenza, il Pd ha comunque migliorato il risultato elettorale rispetto al 2018. Nel fallimento del suo progetto identitario condannato a vagare evanescente, il Pd rimane pur sempre l’unico abbozzo di partito. Non sfonda, ma resiste in ogni tempesta. Strattonato dalla scissione di Renzi e Calenda, e dalla decisione di Conte di correre da solo per recuperare piccoli margini percentuali, il Pd non si dilegua.
Sul giornale che, più della stessa stampa di destra, negli ultimi mesi ha condotto una campagna tutta contro il Pd, è comparso un appello firmato da Gad Lerner e Rosy Bindi. In esso si parte da postulati alquanto distorcenti e da una fantasiosa interpretazione dei numeri. Il voto vedrebbe una “sonora sconfitta” (del Pd) e un vincitore (il M5S), che è invitato alla saggezza dopo il bel trionfo incassato grazie alla ritrovata anima sociale di protesta. Il documento celebra un crollo di oltre 6 milioni di voti come “una tenuta elettorale” e scambia una cessione di quasi 18 punti percentuali per una inebriante vittoria. Il solo pericolo è che il grande balzo rischi di far perdere la saldezza dei nervi e la lucidità della mente al Conte rosso.
I due vincitori sovranisti del 2018 (Lega e M5S) avevano la maggioranza assoluta dei voti (oltre il 50%, 16 milioni e 430 mila consensi). Oggi sono più che dimezzati nella forza e precipitati al 24%, con quasi dieci milioni di sostenitori in meno. I dati però evaporano, e per Lerner e gli altri firmatari il M5S incassa un fantomatico “buon risultato della propria lista”. Al vincitore solo immaginario si chiede di precisare di non aver cavalcato delle istanze sociali per un calcolo “meramente tattico” e di non cullarsi troppo nella superba pretesa di avere in tasca “il monopolio del campo progressista”. Lo stesso giorno dell’appello, però, il Conte già verniciato di rosso rilasciava un’intervista in cui dava una risposta a tutte le domande circa la necessità di delineare “un definitivo chiarimento identitario”. Rispetto ai dubbi di Lerner sul profilo ideale del non-partito (che ha votato al Senato, preferendolo al centrosinistra), il presidente del M5S ha scandito parole definitive: “Il M5S ha avuto la capacità di leggere trasversalmente i cambiamenti senza farsi stringere nella dicotomia destra/sinistra”. L’unica “Identità”, insomma, era quella del nome del giornale su cui compariva l’intervista a Conte.
Lerner e gli altri si ostinano a non capire che il 25 settembre, votando per Grillo, sono precipitati a destra rispetto alla coalizione del Pd. Che presenta limiti, contraddizioni, ma certo non l’ambiguità di proiettarsi oltre la coppia destra e sinistra come spartiacque culturale. I firmatari fanno anche bene a prendersela con “le tentazioni governiste” e “la brama di potere” del Pd. Ma dovrebbero nel contempo ricordare che proprio il M5S è il partito che ha più governato nel corso dell’ultima legislatura e quindi dovrebbe figurare a tutti gli effetti tra i soggetti dell’establishment. Giusto rimarcare la centralità della Costituzione nelle prossime battaglie delle opposizioni, certo con la piccola dimenticanza che l’unica riforma di un certo peso della Carta andata in porto negli ultimi anni, con una sforbiciata secca di poltrone senza alcuna considerazione degli equilibri del sistema politico-costituzionale, porta la firma del M5S. Ma discutibile è assumere come normalizzato il modello di un non-partito che nello statuto presenta un garante “a tempo indeterminato” e non prevede la contendibilità della leadership (Conte è stato eletto dalla rete rispondendo ad un quesito “sì o no”, una sorta di plebiscito del web).
Certo, i politologi Ivor Crewe e David Sanders di Oxford esagerano nel libro da loro curato (Authoritarian Populism and Liberal Democracy, Palgrave, 2020, p. 190) ad evocare “the authoritarian populism of the Cinque Stelle and Lega (and Forza Italia?)”. E tuttavia è arduo giudicare come democratico uno statuto come quello del partito di Conte, per il quale “il primo Presidente dell’Associazione è indicato dal Garante ed è eletto dall’Assemblea a maggioranza dei voti espressi, quale che sia il numero degli Iscritti aventi diritto di voto partecipanti alla votazione”. Che idea di democrazia e di Costituzione ha chi assegna al garante non eletto (e con carica vitalizia) il potere di “indicare” un nome come capo e lasciare agli iscritti una semplice approvazione scambiata per elezione?
Non sono superati, dopo i ritocchi statutari di Conte, i dubbi di Raphael Gritschmeier (Populismus – Korrektiv oder Gefahr, Springer, 2021, p. 63): “Oltre che nelle forme della leadership, l’antipluralismo si riflette anche nella struttura organizzativa dei partiti e dei movimenti populisti che sono carismatici ed anche autoritari, come il PVV di Geert Wilders o il M5S di Beppe Grillo. La bassa qualità della intra-democrazia di partito contraddice la richiesta populista di una partecipazione politica totale da parte dei cittadini. Il populismo si batte per l’abolizione della democrazia nella sua forma costituzionale-liberale a favore di una forma autoritaria che faccia valere la volontà del popolo”. È difficile battersi contro la destra plebiscitaria e presidenzialista con i vessilli di un partito che presenta come “eletto” un capo politico che in completa solitudine si presta ad essere acclamato dagli iscritti con lo schema del “sì o no”.
Dopo aver abbandonato la sinistra, Lerner chiede al Pd di “andare finalmente oltre sé stesso” e di tracciare “un campo plurale”. Il Pd, che non è stato affondato dalla scissione di Italia Viva-Azione, né dalla indubbia trasfusione di voti rossi andati al partito di Grillo, rischia la fine solo se si lascia sedurre da certe sirene. Il pericolo per il Pd è quello di lasciarsi incantare dal chiacchiericcio di chi lo esorta a riconoscere di essere lo sconfitto umiliato da un vincitore senza più pochette e dunque suggerisce di consegnarsi alle alleanze prima di ricostruire identità, radicamento, organizzazione. L’autonomia culturale, però, precede le coalizioni. Sullo stesso giornale, Marco Revelli dà per già sciolto il Pd e censura come “errori inescusabili” la corsa senza i grillini (ma la provocata caduta del governo in condizioni di economia di guerra non prefigurava anch’essa la volontà di rottura del “campo largo” da parte di Conte?), la legge elettorale (la proporzionale rientrava nel patto che i 5 Stelle avevano siglato con Zingaretti per il sostegno dem allo sciagurato taglio contiano dei parlamentari e che i pentastellati non hanno più rispettato), l’essere stato “il partito di Minniti” (e i decreti sicurezza esaltati da Conte, a fianco del Capitano, con tanto di cartello ed hashtag passati alla storia?).
La storia, insomma, conta per condannare il Pd al suo passato neoliberista, però viene cancellata ogni traccia di memoria per il M5S, che si vede amnistiata la cancellazione ad opera della Consulta delle sue leggi illiberali. Giusto apprezzare i tentativi di aderire ad un’agenda progressista sulla scia della formula neo-democristiana della “economia eco-sociale di mercato” evocata nella “Carta dei Principi e dei Valori” del Movimento. Meno comprensibile è celebrare Conte come il campione della nuova sinistra. Così è facile dimenticare che “l’orientamento ideologico misurato sull’asse sinistra-destra rivela che per il suo flirt a livello dell’Ue con il partito populista di destra UKIP e per le sue posizioni restrittive sulle questioni della migrazione il M5S va collegato con i partiti populisti di destra” (Isabelle-Christine Panreck, Populismus-Staat-Demokratie, Springer VS 2020, p. 148).
Secondo Revelli, con il reddito di cittadinanza (che però è il frutto del “contratto” con Salvini, che in cambio ottenne un accenno di flat tax per i ricchi, e non del governo giallorosa) il M5S è “l’unico possibile interprete della parte più fragile della società”. Che il prendersi cura dei poveri è un compito statale per fini di tenuta della pace sociale è assodato. Che abbia qualcosa a che fare con la sinistra è cosa più incerta. A meno di non promuovere Hobbes (“gli uomini che per eventi inevitabili divengono incapaci di sostenersi col loro lavoro non dovrebbero essere abbandonati alla carità dei privati, ma assistiti con provvidenze stabilite dalle leggi dello Stato”) a teorico del socialismo.
Il Pd ha perso perché è stato trafitto dalla “polarizzazione asimmetrica” (S. Cassese) che, grazie alla quota maggioritaria, ha dato un premio in seggi di oltre 15 punti alle destre coalizzate. Il Nazareno deve adesso con lucidità rendere la sua crisi produttiva, per reagire alla sconfitta con un principio di speranza. Rilanciare l’identità, l’organizzazione, il legame strutturale con il mondo del lavoro per governare una società industriale complessa, insomma rivisitare i profili classici della sinistra politica e sociale, questa è la cosa più importante. Il voto, a chi lo legge con occhio realistico, conferma che senza il coinvolgimento del Pd non c’è alcuna altra sinistra in grado di rappresentare i lavori della tarda modernità.
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