Resa dei conti in direzione
Letta contro chi vuole sciogliere il PD: ma è ancora un partito socialista?
Il Pd ha iniziato la riflessione post voto. Assediato dall’esterno. Circondato da molti elementi, e anche da qualche potenza, che vorrebbero la sua fine. Non solo nella destra, come è logico, prevale questa speranza e questo disegno. Ma anche in altri campi. Nei Cinque Stelle, naturalmente, in settori vasti del movimento di Calenda e Renzi, nei gruppi dirigenti di svariati giornali, guidati soprattutto dal Domani di De Benedetti. La parola d’ordine è “sciogliere” il Pd. Il disegno è quello di dare un altro colpo alla presenza della politica al vertice della costruzione democratica. La politica alta è fatta di partiti.
Il Pd è il più antico e solido dei partiti politici. Oggi prevale l’idea che la politica debba essere ridotta all’assemblaggio di comitati elettorali, che poi si rendano funzionali ai poteri veri: quelli dell’economia, quelli della magistratura, quelli della finanza, quelli stranieri. Enrico Letta ha svolto la relazione alla direzione del Pd, ieri mattina, tenendosi su una linea molto prudente, pacifica, ma ferma su un punto: il Pd è un valore e non si scioglie. resta democratico e resta partito. E si tiene stretto stretto il suo simbolo. Difficile dargli torto. A occhio Letta, su questa linea, dispone della maggioranza del Pd. Non dell’unanimità. Settori del Pd vorrebbero un grande ribaltone, una fusione col M5s, o qualcosa del genere, e la nascita di un partito, o – meglio – di un movimento democratico populista, non nemico delle idee di fondo del qualunquismo, per la semplice ragione – nobilissima per altro – che ritengono che solo accettando questa deriva si possa contrastare la destra.
Chi – da dentro – vuole lo scioglimento del Pd, pensa che solo una organizzazione che accetti – almeno in parte e almeno per un determinato periodo di tempo – la demonizzazione della politica, la prevalenza del giustizialismo e una forte spinta populista, possa aspirare a recuperare il consenso di una parte del popolo che oggi si è allontanata dal centrosinistra. E che dunque solo per questa via possa tornare al governo, ed è il governo la ragione vera della politica. Anche questo è il motivo per il quale viene respinta l’idea di restare partito, perché il partito, di per se, è portatore dei valori tradizionali della sinistra da più di un secolo. Ed è estraneo al qualunquismo.
Letta è stato fermo nel respingere questa tentazione. Gli va riconosciuto un certo coraggio. Ed è stato piuttosto coraggioso anche nel riconoscere gli errori che hanno portato al mancato successo elettorale (Scusate se parlo di mancato successo e non di disastro e di Caporetto, perché non riesco a considerare disastroso un risultato che registra un lieve miglioramento, in percentuale, rispetto alle ultime elezioni politiche). E ha trovato dalla sua parte un numero significativo di consensi. Il più convinto è stato forse quello di Gianni Cuperlo, l’esponente più prestigioso di quella sinistra del Pd che resta “pensante”. L’impressione però, ascoltando tanto la relazione quanto la discussione, è che ci troviamo di fronte a un partito che esagera la sua crisi e la affronta – debolmente – solo sul piano tattico.
Naturalmente è innegabile che sia stata la debolezza tattica a determinare la sconfitta elettorale. Se è vero che la somma dei voti raccolti dai partiti grandi e piccoli estranei alla coalizione del centrodestra è stata superiore ai voti raccolti dal centrodestra – e che dunque è sbagliata la fotografia di una opinione pubblica che ha subìto negli ultimi anni una secca svolta a destra – è chiaro che la sconfitta è stata figlia di tattiche che non hanno funzionato. Cioè di una politica delle alleanze fallimentare. Il problema però è questo: qualunque politica delle alleanze vale? Cioè la leadership migliore è quella che riesce a raccogliere il maggior numero possibile di alleati? Forse sì. Forse invece no.
Certamente l’irruzione negli ultimi anni di una formidabile spinta qualunquista, che poi è diventata populista (o plebeista) nella politica italiana, ha scompaginato gli schieramenti, le strategie e soprattutto le ideologie (che Cuperlo, ieri, ha definito l’arma più potente della battaglia politica). La destra è riuscita con naturalezza a riassorbire al suo interno il populismo, e per questo ha vinto, la sinistra invece ne è uscita squassata. Prima e dopo la campagna elettorale. S’è fatta suggestionare dal populismo, ha temuto di affrontarlo a viso aperto, però ha cercato di resistere, di restare se stessa. E lì ha preso le batoste. Cedendo al draghismo, al guerrismo, all’antirenzismo, e contemporaneamente restando in parte subalterno ai 5 Stelle, salvo poi a rompere proprio sul piano elettorale all’ultimo momento.
Ora, se la discussione resterà solo sulle alleanze (da soli, con Renzi o con Conte?), sarà difficile ricostruire. Forse il Pd deve capire che il confronto non è tra chi pensa di restaurare il bipolarismo e chi invece vede che l’Italia è ancora tripolare. No: non è quella la madre di tutte le battaglie. L’alternativa è tra la prevalenza dell’ideologia liberista o di quella socialista. È così in tutt’Europa. Anche da noi. E io sono rimasto negativamente colpito dal fatto che durante tutta la discussione, se non mi è sfuggito qualcosa, non ho mai sentito pronunciare questa parola: socialismo. Non è più quella la prospettiva? Non è la costruzione di un partito socialista, riformista, radicale, e che sappia difendere i principi della libertà e del garantismo?
Penso che il congresso è su questi temi che dovrebbe dispiegare la battaglia politica. Per ora invece c’è molta timidezza. Forse l’unico vero ripensamento di fondo, che si è cominciato a sentire, è sui temi della guerra. Quanti consensi ha perduto il Pd con la sua posizione fortissimamente guerrista? Più guerrista di tutti. Sia Letta che Cuperlo hanno accennato a un ripensamento. Hanno messo in discussione l’imperativo di seguire Zelensky perinde ac cadaver. Hanno aperto alla possibilità di una iniziativa pacifista di fronte al rischio dello scontro spaventoso e anche nucleare con la Russia. Meno male.
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