“Al Pd tutto servirebbe tranne un congresso da resa dei conti ai vertici. È vero, purtroppo, che negli ultimi tempi la specialità della casa è stata il ghigliottinamento dei segretari ma una rifondazione non può ridursi a un cambio di nome o alla nomina di un nuovo segretario magari di genere. Una rifondazione è tale se parte dal basso, dall’organizzazione di un dibattito aperto sull’identità di una forza della sinistra nel XXI secolo”. A sostenerlo è Nadia Urbinati, accademica, politologa italiana naturalizzata statunitense, docente di Scienze politiche alla prestigiosa Columbia University di New York.

Molto si è detto e si è scritto sul voto del 25 settembre. C’è chi ha parlato di elezioni storiche. Questo aggettivo lo condivide?
Se per storiche vuol dire che una compagine che proviene dalla tradizione repubblichina, quella del Movimento sociale italiano, perché è di lì che parte tutta la costruzione, certo che è una elezione storica. Per come la stessa leader di Fratelli d’Italia ha presentato la sera della vittoria il suo successo, dedicandolo ai loro morti, facendo una narrativa di correlazione, di unione fra il presente e il passato. Certo che è storica in una Italia che ha una Costituzione che nasce, e non è retorica, ma verità storica, dalla lotta al nazifascismo e che ha un articolo, il 138, che mette importanti paletti alle leggi di revisione della Carta costituzionale. Ora si tratterà di vedere se è storica nel senso simbolico o storica nel senso contenutistico, ovvero che cosa farà di storico il governo delle destre. Bisogna attendere perché al momento abbiamo pochissime indicazioni. Il programma elettorale era poca cosa a parte dei proclami. Occorre capire cosa di storico succederà.

Di “storico” non c’è anche la pesante sconfitta del centrosinistra e in esso dell’azionista di maggioranza, il Partito democratico?
Indubbiamente è una sconfitta “storica” ma che viene da lontano. Per non andare troppo indietro nel tempo fermiamoci a questa legge elettorale che è stata costruita intenzionalmente per impedire forti maggioranze o coalizioni stabili. Si sapeva che questa legge elettorale aveva questi problemi, aggiunta a quella sciagurata decisione di far passare la diminuzione dei parlamentari. Il combinato è bestiale eppure non è stato fatto niente. La sconfitta del centrosinistra è stata anche una auto-sconfitta. Questi hanno fatto di tutto per non arginare il peggio, con una straordinaria superficialità e un colpevole disinteresse. C’è una responsabilità enorme. Ma è anche una auto-sconfitta per quello che non hanno fatto durante la campagna elettorale.

Vale a dire?
Hanno assunto una posizione troppo identificata con il governo Draghi, senza alcuna autocritica. E sì che c’era la possibilità di fare delle critiche puntuali, del tutto legittime e giustificate. In fondo quello guidato da Draghi è stato un governo importante ma non ha fatto tante cose e alcune fatte neanche troppo bene. Pensiamo alla transizione ecologica, della legge sul catasto, parliamo della legge sulla giustizia. Insomma ci sono delle cose che non si possono accettare semplicemente perché sono state fatte da un governo guidato da una personalità notevole come Mario Draghi. E poi si è imboccata la strada di andare da soli con una idea di vocazione maggioritaria che non può essere ascritta o imputata a Letta ma che viene dal Pd fin dalla sua nascita, nel 2007, e che c’ha accompagnato da sconfitta a sconfitta. Per cui, paradossalmente, il Pd ha governo con coalizioni ma senza aver mai costruito coalizioni elettorali ma sempre post elettorali con questa idea del maggioritarismo. Una idea che va liquidata, se si vuole cambiare c strada sul serio. C’è una sconfitta strategica, profonda, dell’identità, di quel che è il partito e di quello che ha saputo o non ha saputo fare.

Enrico Letta ha annunciato di non volersi ricandidare alla segreteria Dem e di anticipare il Congresso. Non c’è il rischio che il Congresso anticipato si riduca ad una resa dei conti tra apparati?
A mio avviso lui ha fatto bene a rimettere il suo mandato perché è il responsabile primo di questa sconfitta. Con questo statuto che il partito ha, il segretario è un leader plenipotenziario, un plebiscitato. Ha tutto il potere e non è obbligato nemmeno ad ascoltare suggerimenti che potrebbero essere utili. Letta ha preso delle decisioni che si sono rivelate suicide perché con questo sistema elettorale doveva chiudere il libro sul tradimento dei 5Stelle e cercare un’alleanza. Probabilmente non sarebbe nemmeno avvenuta, perché ai 5 Stelle conveniva andare da soli. Penso che lui abbia fatto bene ad annunciare di non volersi ricandidare. Mi sembra tuttavia che questa corsa immediata al Congresso adesso, in queste condizioni, sia una soluzione non positiva, la classica pezza peggiore del buco.

Perché?
Perché è una situazione che meriterebbe più attenzione, non stare troppo sotto i riflettori e avere la capacità di isolarsi un poco per potere stabilire alcuni punti fermi.

Quali, professoressa Urbinati?
Primo, la necessità inderogabile di cambiare uno statuto che è all’origine di tutti i mali. È come la Costituzione di un paese. Se è sbagliata è chiaro che le politiche sono sbagliate. Il Pd avrebbe bisogno di uno statuto che riequilibri il ruolo plebiscitario del leader con una concezione più collegiale, a partire dalla segreteria, e con un rapporto diretto, politico, con le sezioni. In altri termini, ricostruire il partito per ricostruire l’eleggibilità dei suoi leader e la capacità di operare in tutta la società e non semplicemente a Roma. Occorre ricostruire il partito e questo non lo si fa con un Congresso. Il Congresso dovrebbe essere lo sbocco terminale di un processo di riorganizzazione che non ammette scorciatoie verticistiche. Dopo la seconda guerra mondiale, i cattolici si riunirono a Camaldoli per un importantissimo seminario che diede loro delle linee guida fondamentali. Non mi aspetto una “Camaldoli” del Pd ma qualcosa che gli assomigli non sarebbe male. Io credo che in un partito che vive una fase così tremenda di dissoluzione, l’ultimo dei suoi problemi dovrebbe essere quello di chi sarà il leader. Anche perché appena lo si propone viene subito ghigliottinato. Il Pd per quello che è per come è, è un partito incapace di tenere leadership collettive, che distrugge quel che crea. Occorre invece andare alle origini. Ricostruire i fondamenti e quindi la struttura del partito.

E questo ci porta ad un tema che è stato al centro di nostre precedenti conversazioni: la crisi di rappresentanza. In queste “storiche” elezioni un dato è certamente storico: il 10% in meno dei votanti rispetto alle precedenti elezioni politiche del 2018, con il più alto tasso di astensionismo nella storia della Repubblica.
Questo dimostra che esiste fra il cittadino “ordinario”, quello che non ha, per usare una definizione della politologia inglese definisce “clothing interests”, interessi vestiti, non può esercitare rapporti di forza, ma è solo, e ha dei problemi che oggettivamente nessuno può aiutarlo a risolvere. Per tutte queste questioni di tipo sociale, economico, d’insoddisfazione manca una chiave di traduzione di questi bisogni sociali in progetti politici. Perché mancano partiti. La crisi del Partito democratico e la crisi della rappresentanza sono la stessa cosa, sono tra loro collegate. E allora si spiega perché parte dell’elettorato, soprattutto quello più debole, avverta di non avere punti di riferimento. È vero, non ne ha. È sbagliato pensare che non avendoli non vada a votare, dovrebbe andare. Ma l’idea chiara è che se io sono solo e abbandonato cosa vado a fare a votare. Questa relazione deve essere spezzata. E può essere spezzata educando alla cittadinanza attiva attraverso forme strutturate e organizzate di formazione del consenso. Siamo sempre lì: partiti organizzati e non partiti che servano solo ad eleggere il leader o i rappresentanti. Perché quei rappresentanti non faranno nulla per far sentire i cittadini dentro le istituzioni. Nulla. Quindi occorre ricostruire questo reticolo. Democrazie senza partiti organizzati sono come la nostra, ovvero messe male, in condizioni davvero preoccupanti.

Lei vive per buona parte dell’anno a New York dove insegna alla Columbia University. Ne approfitto per chiederle come sono state viste negli Stati Uniti queste elezioni e il loro risultato?
Allo stesso modo di altri paesi, con molta preoccupazione, anche perché di Giorgia Meloni si sa da dove viene e quindi c’è l’immediata correlazione con il fascismo. E poi occorre parlare dell’Europa e di ciò che sta avvenendo in alcuni dei suoi paesi membri dell’Ue, in cui si stanno affermando posizioni revisioniste molto radicali rispetto alla tradizione della comunità europea alla quale noi siamo stati abituati. Con più nazionalismo, con più sovranismo, con una minore attenzione alla comunità europea e una interpretazione più confederale, come per la Meloni. Ed è in questa chiave, in chiave internazionale ed europea, che qui negli Stati Uniti il voto italiano è stato letto con preoccupazione.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.