E anche un altro segretario è andato, la sua missione è finita in fretta. Sono già sette i leader democratici accantonati dal 2007 ad oggi. E dire che in 45 anni di vita repubblicana il Pci ha avuto solo cinque segretari generali. La breve carriera del capo non è perciò un male che viene da Botteghe Oscure. È, piuttosto, una tara trasmessa dal cofondatore democristiano, di sicuro più avvezzo alle contese correntizie e alle risolutive pratiche di regicidio.

Grande consumatore di segretari, il Pd non ha avuto altrettanta attitudine nello sfornare idee fascinose e profili di organizzazione funzionanti. Le primarie, la sua invenzione intra-organizzativa più significativa, hanno prodotto un effetto dissolutivo nel corpo del partito, inducendolo presto alla smobilitazione per esaurimento funzionale del ruolo. L’elettore indistinto elegge il segretario espropriando così lo scettro all’iscritto, che diventa una figura del tutto inutile. Il partito del leader incoronato dai gazebo, peraltro, non ha mai vinto le elezioni, essendo arrivato più vicino al traguardo Bersani, con la sua non-vittoria imposta dall’onda populista che spezzò il sistema politico bipolare; e, nel suo impatto reale, ha invece accompagnato la parabola discendente di un partito liquido senza sedi, senza militanti, senza congressi, senza elaborazione di cultura politica.

L’opzione veltroniana del Lingotto, quella di un non-partito del leader, con una idea aconflittuale della società degli individui, una mitologia del sistema maggioritario assunto come profilo identitario, una retorica dei buoni sentimenti o “sinistra dei valori”, ha impresso al codice genetico del Pd informazioni del tutto squilibrate. Negli anni, esse hanno inciso in negativo determinando l’incubazione di una forte inclinazione al suicidio ideale-organizzativo. I segretari accumulano una incontenibile tendenza alla mortalità infantile perché è proprio lo strumento che non funziona: il Pd, anche nella volatilità estrema della leadership, si conferma un esperimento fallito, un soggetto da reinventare. Il Partito democratico può avere esiti contrastanti nel suo assemblaggio aporetico: se prevale l’ingranaggio tecnocratico, la lettera della Bce o l’agenda Draghi diventano la bibbia del riformismo e il superiore senso di responsabilità assunto nelle giunture critiche può spingere a vendicare il deicidio come un atto di riverenza; se invece a sprigionarsi è il contenuto sociale, a causa dell’assenza di una cultura critica della modernità, la linea del partito può compiersi in una forma debole di populismo sino a salutare in un leader rivale il raggiunto “punto di riferimento fortissimo di tutti i progressisti”.

Un partito che si lacera oscillando tra i numeri rassicuranti di Draghi e la vuota quanto torrenziale retorica di Conte è semplicemente una organizzazione campata in aria. Senza identità, radicamento sociale, il Pd oscilla sul piano delle idee, perde voti in ogni direzione, attratti dalla “serietà” sbandierata da Calenda o dalla immaginaria venatura sociale benedetta dall’avvocato del popolo. La via peggiore per il Partito democratico di rispondere al proprio fallimento funzionale sarebbe quella di scontrarsi ad oltranza tra i fautori dell’aggregazione dei riformisti “seri” e i propugnatori di una rivolta sociale nelle terre del Mezzogiorno. Quest’ultimo, infatti, ha una sostanza politica non facilmente afferrabile. La Sicilia è capace nello stesso giorno di esprimere un gesto di riconoscenza a Conte “padre del reddito” e compiere un atto di fedeltà per accontentare Schifani alla Regione. Da un fallimento come quello del Pd si può uscire in positivo purché il gruppo dirigente centrale abbia la capacità di affrontare in radice i nodi della sconfitta.

In tal senso, cruciale si rivela la capacità di saper ben selezionare il problema principale, accantonando le pratiche lunghe su faccende marginali che si rivelano fuorvianti. Secondarie, senza dubbio, sono le metafisiche delle alleanze: le convergenze, che certamente sono necessarie, nasceranno in Parlamento e nel paese nello svolgimento del ruolo di opposizione. Prima però di stabilire i confini delle pur opportune coalizioni, in certa misura obbligate dalle regole elettorali vigenti, occorre presidiare il proprio campo, definire una solida identità. Solo così un partito può dialogare con i liberal-democratici, che intendono consolidare un’area post-elettorale fluida, e seguire con attenzione la precisazione del profilo “progressista” dei 5 Stelle, che si sono affrancati dal marchio del padrone del simbolo ma non ancora dalle insidiose inclinazioni a seguire delle varianti di partito personale destrutturato a carattere monotematico, tutto racchiuso nella comunicazione avvocatesca del leader e nella difesa della misura simbolica.

Fuorvianti sono di sicuro le scorciatoie di chi vorrebbe indurre un partito smarrito a lasciare che a indicare il segretario sia la copertina di un rotocalco o una trovata fantasiosa partorita su un’isola thailandese. La scelta del segretario è il riconoscimento di un processo politico che, dalla reazione collettiva ad un fallimento, inventa un altro soggetto politico, il quale non azzera le esigenze di continuità che malgrado tutto sono ancora visibili e, per quel che valgono, da rivendicare. Il percorso congressuale non dovrebbe insomma essere una pallida copia di un talent show in cui si misura il gradimento di candidature talvolta improvvisate che recitano con un copione a semplice favore delle telecamere. Un congresso vero, con tesi e correnti programmatiche, è altra cosa dalla corrida delle primarie e dal valzer delle candidature che ballano da sole.

Proprio perché la sconfitta è storica, essa impone di mettere in discussione ogni cosa: il nome (l’aggettivazione “socialista” o una formula similare è ormai indispensabile, la parola “democratico” è solo una fuga dal nodo dell’identità), il simbolo (i riferimenti ai colori della sinistra europea sono ineludibili), l’inno (l’Internazionale è un canto che in un partito del lavoro non merita obiettori di coscienza). Precisare l’identità è solo l’inizio di un percorso, ma è già tanta roba averne una. Nella sua storia la sinistra conquista la forma dell’autonomia politica e culturale non proponendosi semplicemente per la cura della povertà con le risorse dell’assistenza o con la caritas. Questa è oggi una specialità del M5S, ma non costituisce l’asse portante di una cultura critica di sinistra. Essa scaturisce, piuttosto, dal conflitto capitale-lavoro e nella sua storia politicizza le differenze di classe per definire una nuova forma di organizzazione della società e del potere. Solo questa politica-progetto, declinata come istanza critica del moderno, può risolvere i fondamenti delle diseguaglianze, delle esclusioni, della precarietà e destinare le risorse all’ampliamento dei beni pubblici e comuni.

La comparsa dell’area liberaldemocratica di Calenda in certa misura semplifica le cose e facilita i compiti identitari per il Pd. La componente cattolica, entro una prospettiva di risoluzione dei nodi politico-culturali, può svolgere lo stesso ruolo che ricoprì Delors ai tempi d’oro del socialismo francese. L’accanimento nella spartizione dei profili ideali in due zone distinte condanna il partito nel limbo dell’indeterminatezza valoriale. Non è più sostenibile una funzione di interdizione, di resistenza che ottiene la lunga sospensione del lavoro di riprogettazione culturale. Quando Letta, per recuperare voti in libera uscita, assume la maschera del radicalismo politico, non appare credibile perché l’identità del partito è sfuggente e contrastante con parole, lessico e simboli della sinistra.

Si potrebbe prevedere un modello di partito misto, con iscrizioni individuali e appartenenze collettive. Con affiliazioni riconosciute attraverso patti tematici, il Pd può garantire la rappresentanza con intese siglate con le organizzazioni sindacali e con le aree ancora politicizzate delle sigle più antiche dell’associazionismo rosso (Lega delle Cooperative, Unipol, Cna, Cia). La riapertura dei canali di collegamento con gli organismi sociali collettivi è la strada più collaudata per la riscoperta della forma di un partito solido che intercetta le manifestazioni di un consenso strutturato. Entro un partito che ridefinisce con coerenza la propria essenza e assorbe quale codice ideale una forte impronta gramsciana, non è impossibile ospitare anche le culture più radicali che escono da reiterate sconfitte elettorali. Uno spazio politico autonomo non è stato sinora conquistato dalle forze collocate a sinistra del Pd, e in tal senso per queste ultime seguire la via laburista, con correnti interne molto radicali e identitarie che convivono con sensibilità riformiste, non sarebbe un approdo rovinoso.

Questo percorso, che sconsiglia fortemente la giostra già attivata delle autocandidature, richiede un momento di consapevolezza dei gruppi dirigenti centrali che sono chiamati a gestire un insidioso processo costituente. Orlando, Cuperlo, Orfini sono dirigenti che hanno la capacità di recuperare un pezzo di storia che viene da lontano e impiegarlo come fondamento costruttivo di idealità e progetti politici che sono ben diversi dalle visioni di Conte o Calenda. Una volta definita in modo chiaro la propria identità, anche il dialogo con i leader “progressisti” o liberal-democratici, che si impone come necessario, sarà più facile.