È il settembre del 2004 quando la Procura della Repubblica di Catanzaro, ricevuta l’informativa di reato, avanza richiesta di misura carceraria per 70 indagati e di sequestro per innumerevoli beni; i delitti sono i soliti: associazione a delinquere di stampo mafioso, omicidio, traffico di sostanze stupefacenti, svariate ipotesi di usura, riciclaggio ed estorsione. L’operazione è convenzionalmente denominata Azimuth, dal nome di una barca appartenuta ad un soggetto vittima di usura. Il Gip accoglie integralmente le richieste, disponendo la custodia cautelare in carcere per tutti i 70 indagati e per tutte le ipotesi di reato e il sequestro tutti i beni come richiesto dall’Ufficio inquirente. Conferenza stampa e articoli di stampa per omaggiare ed esaltare tutta l’operazione. Il processo, poi, ha avuto però alterne vicende.

Le tre strade

Già in sede di udienza preliminare per diversi imputati e per diversi capi di incolpazione il Gup ha emesso sentenze di proscioglimento. Il resto del processo ha preso tre strade: il rito abbreviato, giudizio ordinario davanti alla Corte di Assise di Cosenza e giudizio ordinario avanti il Tribunale di Paola. Il primo, disposto nei confronti di 16 persone, si è concluso con condanna per solo 5 imputati. Il secondo, quello davanti alla Corte di Assise di Cosenza, ha riguardato 2 soli soggetti, che, condannati in primo grado, sono stati poi assolti dalla Corte di Assise d’Appello di Catanzaro. Il giudizio di fronte al Tribunale, invece, riunito ad altro troncone denominato Goodfather, ha visto la condanna di 18 imputati, per 11 dei quali la Corte d’Appello di Catanzaro, in fase di appello, ha confermato la sentenza, peraltro rideterminando in senso favorevole anche l’entità della pena. Naturalmente, la custodia cautelare ha prodotto poi i procedimenti dinanzi alla competente Corte d’Appello per l’azione risarcitoria per ingiusta detenzione in esito ai quali numerosi imputati poi assolti sono stati risarciti con somme imponenti a carico dell’Erario.

Su 70 arresti 16 condanne

Non si può non riflettere sul dato definitivo secondo cui su 70 arresti iniziali, solo 16 sono state le condanne. Non si può non riflettere sul fatto che tra i numerosi beni sequestrati in origine vi fossero aziende poi restituite ai legittimi proprietari in condizioni di dissesto. Non si può non riflettere sul fatto che, nella piena autonomia decisionale, il Giudice, a fronte di 70 richieste di applicazione della custodia cautelare in carcere – nonostante il dettato costituzionale, che impone di applicare la custodia cautelare in carcere quando la stessa appare la sola idonea e la possibilità di gradazione con altre misure coercitive che di sacrificare in maniera più contenuta la libertà personale – abbia invece deciso di accogliere in toto una richiesta rivelatasi, infine, non del tutto adeguata.

Il ruolo debordante delle informative di reato

Resta però anche da domandarsi se il ruolo assunto dalle informative di reato, di cui in sostanza si costituiscono le richieste cautelari, non abbia assunto nel nostro sistema un ruolo debordante, diventando per il Pubblico Ministero che richiede e per il Gip che l’accoglie “prova manifesta” di colpevolezza. Cosa suggerisce l’epilogo di una vicenda così triste e dolorosa che, purtroppo, si ripete da più di vent’anni? Che il rischio di errore per il giudice della cautela può dipendere dalla massa di atti di indagine portati alla sua attenzione senza che gli si conceda quella tranquillità di giudizio necessaria per assumere una valutazione pienamente indipendente rispetto alla domanda avanzata dal Pm.

Dov’è la terzietà del giudice?

E peraltro, nel caso qui segnalato, emerse anche un problema in ordine alla selezione degli atti da parte dell’Ufficio di Procura, che individuò solo quegli atti che potevano essere utili alla sua tesi e non quelli che invece avrebbero dovuto riguardare la contestazione del fatto-reato ai singoli indagati. Il Gip non ha acceduto direttamente alla verifica degli atti presenti nel fascicolo della Pubblica Accusa tant’è che nell’ordinanza di custodia cautelare in carcere ha allegato l’intera richiesta avanzata dal Pm. Sintomo emblematico della perdita della sua indipendenza ed autonomia. Eppure, nella relazione preliminare all’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale si afferma che il vincolo del giudice alle richieste formulate dal pubblico ministero tiene conto “della filosofia ispiratrice del nuovo codice e della conseguente necessità di preservare la terzietà del giudice”. Il dubbio rimane: come si garantisce la terzietà del giudice dinanzi a degli atti confezionati dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria, in un sistema che pone entrambe le Toghe all’interno dello stesso ordine? E non si vede con chiarezza se e quando esso potrà essere dipanato.

Giuseppe Bruno

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