L'intervista
I costi della politica e il finanziamento pubblico ai partiti, Petrillo: “I privati salvano la democrazia, ma serve trasparenza”
Senza soldi la democrazia non esiste: va detto alle anime belle che fanno finta di non sapere che la politica ha un costo, e anche elevato. È stato sempre così (anzi, prima costava pure di più). E quando girano i soldi, l’illecito è sempre dietro l’angolo. Ma è materia sfuggente: cosa è lecito e cosa non lo è? Ci sono le leggi, certo, ma il problema è riproposto tutti i giorni dagli scandali, o presunti tali. Giovanni Toti ha commesso il reato di corruzione o di illecito finanziamento, o tutti e due o nessuno dei due? Si fa presto a dire: colpevole. Ma con il professor Pier Luigi Petrillo, docente alla Luiss di diritto comparato e di teorie e tecniche delle lobbies, partiamo dall’inizio.
Professor Petrillo, una volta c’era il finanziamento pubblico dei partiti, abolito dal governo Letta dieci anni fa. Ora il piatto piange, e spuntano gli illeciti.
«È ovvio che una volta abolito il finanziamento pubblico o intervengono i privati o la democrazia muore. Però va detto che gli illeciti e gli scandali c’erano eccome anche a quel tempo. La maxi-tangente Enimont ci fu con il finanziamento pubblico dei partiti, ricordiamocelo. Cioè, quel sistema non metteva al riparo dagli scandali. Il problema è che i privati che decidono di sostenere la politica non lo fanno in omaggio a una ideologia ma per vedersi tutelare i propri interessi».
Non c’è niente di male in questo. Se una bocciofila finanzia un candidato, si aspetta che quel candidato una volta eletto faccia qualcosa di utile per lei. Giusto?
«È assolutamente così. Ovvio che deve essere tutto registrato e trasparente. A questo proposito, per parlare della questione di oggi, se Toti ha tutelato gli interessi dell’imprenditore che lo aveva finanziato senza abusare delle sue funzioni, e ha trascritto il finanziamento, qual è il reato? Altra cosa è se lo avesse costretto a pagare, quella allora è concussione. Vedremo cosa stabiliranno le indagini».
Ma lei si è fatto un’idea?
«Leggendo i giornali non sembra finanziamento illecito. Ma la vicenda ligure pone un problema più ampio: un politico eletto grazie ai voti di una comunità, di un territorio, di un settore economico, se poi soddisfa quegli interessi sta facendo politica o commette un illecito?».
Dipende da come lo fa, no?
«Appunto, deve rendere tutto trasparente. Mi pare che Toti abbia reso note quelle contribuzioni. Vede, in Gran Bretagna la legge dice esattamente il contrario: se un candidato ha preso soldi da un’azienda, non potrà mai e poi mai intervenire sugli interessi di quella azienda. Da noi direi che vige il discorso opposto: chi finanzia un candidato lo fa perché questo condivide il suo stesso interesse e se ne farà carico».
Insomma, professor Petrillo, sia con il finanziamento pubblico che con quello privato gli scandali sembrano inevitabili. Ma la politica non costa meno di quando c’erano le grandi macchine organizzative dei partiti?
«Sì, infatti c’è un problema culturale più di fondo. E semmai i partiti personali hanno peggiorato la situazione, la vita di un partito completamente piegata agli interessi di una persona è segnata in peggio proprio dal punto di vista della morale, del comportamento etico».
Quando fu abolito il finanziamento pubblico si disse: bene, ora chi è più bravo riceverà maggiori sostegni economici da parte dei cittadini con il 4×1000. Ma com’è andata?
«Il numero dei cittadini che optano per dare un contributo ai partiti è bassissimo, anche se la legge incentiva a sostenere i partiti o i candidati perché il finanziatore può scaricarlo dalle tasse. Certo, si potrebbe allargare il cosiddetto “inoptato”, cioè la quota di coloro che per varie ragioni non scelgono quale partito sostenere».
I tesorieri dei partiti, tutti, sostengono che i soldi non bastano mai. Allora si va da chiunque a battere cassa, spesso da gruppi d’interesse che non rispondono a nessuno. È la questione delle lobbies che finanziano la politica ma sempre dietro un velo di opacità. Ci si chiede da anni: perché non si fa una legge sulle attività di lobbying?
«Siamo l’unico paese europeo, con la Spagna, a non avere una legge. La Grecia l’ha approvata poco tempo fa. Da noi è il far west. Perché? Per due motivi: innanzitutto perché il decisore politico preferisce avere questo paravento, per cui nell’assenza di regola qualunque problema può essere fatto ricadere sulle lobby. E, seconda ragione, anche ad alcuni lobbisti conviene questa assenza di chiarezza: se non ci sono regole e l’accesso alle lobbies è oscuro allora prevale il criterio dell’amicizia. È la logica opaca dei favori a prevalere. Tutto molto italiano».
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