«Noi stiamo parlando, c’è forse una bomba sotto questo tavolo e la nostra conversazione è molto normale, non accade niente di speciale e tutt’a un tratto: “boom”, l’esplosione. Il pubblico è sorpreso, ma prima che lo diventi gli è stata mostrata una scena assolutamente normale, priva di interesse. Ora veniamo alla suspense. La bomba è sotto il tavolo e il pubblico lo sa, probabilmente perché ha visto l’anarchico che la stava posando. Il pubblico sa che la bomba esploderà all’una e sa che è l’una meno un quarto – c’è un orologio in stanza –; la stessa conversazione diventa tutto a un tratto molto interessante perché il pubblico partecipa alla scena. Gli verrebbe da dire ai personaggi sullo schermo: “Non dovreste parlare di cose così banali, c’è una bomba sotto il tavolo che sta per esplodere da un momento all’altro”. Nel primo caso abbiamo offerto al pubblico quindici secondi di sorpresa al momento dell’esplosione. Nel secondo gli offriamo quindici minuti di suspense».

Così Hitchcock nel 1962 in una famosa intervista a Truffaut. E quando a scoppiare è una bomba giudiziaria seduto al tavolo c’è il politico sorpreso (o che si mostra tale). Sia lui che il pubblico, anche in questo caso, hanno osservato la meccanica e il funzionamento dell’ordigno–azione penale degli inquirenti. Attorno a questo thriller i cavi si ingarbugliano sempre di più e gli esempi sono molti: dalla Severino al traffico d’influenze allo Spazzacorrotti, tutte leggi che impediscono al pubblico, spettatore del film della giustizia, di disinnescare l’ordigno tagliando – ad esempio – i fili che collegano le carriere.

Esempi di avvisi di garanzia piombati sulla testa di candidati più o meno quotati a ridosso degli appuntamenti con le urne ce ne sono, a qualunque livello, dalle Comunali alle Regionali, dalle Politiche all’esempio più attuale: le Europee, con l’accusa di corruzione contro il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti. In Italia poche competizioni sono state risparmiata dalle entrate a gamba tesa delle procure che, una volta chiuse le urne con l’indagato di turno divenuto impresentabile, hanno poi fatto il passo indietro.

È il caso della giunta di Terracina decapitata facendo finire ai domiciliari la sindaca di FdI Roberta Tintari, accusata di falso nella gestione dell’arenile comunale, poi tornata in libertà in quanto la misura sarebbe stata «illegittima». La richiesta dei pm al gip era stata presentata con la preghiera di applicare in via «urgente» le «misure cautelari coercitive» per «interrompere le condotte criminose», ma gli arresti sono arrivati due anni dopo e, coincidenza, due giorni prima della caduta del governo Draghi. Poco importa se il nome del personaggio destinatario di un avviso di garanzia – a volte a mezzo stampa, prima che per mano di un ufficiale giudiziario – sia o meno presente nelle liste dei candidati.

Come accaduto a Luca Morisi, creatore della “bestia” social che ha fatto la fortuna del leader della Lega Matteo Salvini, all’epoca affaccendatissimo con le Amministrative. Il guru della comunicazione del Carroccio era finito nel mirino della Procura di Verona, a pochi giorni dall’appuntamento alle urne, con l’accusa di cessione di stupefacenti. L’indagine finì con un’archiviazione «per particolare tenuità del fatto», ma quella tornata elettorale fu una stangata per la Lega, secondo cui il caso Morisi, reso pubblico dalla stampa, fu un modo per affondare Salvini. «È una vicenda meschina, attaccano lui per attaccare me», tuonò il leader del Carroccio.

Fu più fortunato Vincenzo De Luca, governatore della Campania riconfermato alla guida della Regione, quando la bomba scoppiò casualmente a due settimane dal voto di un’elezione che i sondaggisti davano già in mano allo stesso De Luca, superfavorito con più di 10 punti di vantaggio sullo sfidante di centrodestra, Stefano Caldoro. La procura di Napoli gli contestava di abuso d’ufficio, falsità ideologica e truffa, ipotesi che, a pochi mesi dalla rivelazione di Repubblica venne archiviata. L’indagine era in corso da tre anni ma «lo straordinario scoop giornalistico», ironizzò il governatore sui social, venne reso pubblico solo a pochi giorni dal voto.

A finire nei guai fu anche un altro candidato di centrodestra, in lizza come consigliere comunale a Palermo: si tratta di Francesco Lombardo, accusato di scambio elettorale politico-mafioso, arrestato a pochi giorni dalle elezioni per aver chiesto appoggio a Vincenzo Vella, boss di Brancaccio, già condannato tre volte per associazione mafiosa. L’arresto fu annullato pochi giorni dopo e l’accusa derubricata a corruzione elettorale. Stessa sorte era toccata a Lara Comi, candidata di Forza Italia alle Europee e accusata di finanziamento illecito, accusa poi archiviata. «Su di lei un grande equivoco», la difese Silvio Berlusconi. Ma l’inchiesta aveva colpito anche altri esponenti del partito dell’ex presidente del Consiglio, come Pietro Tatarella, vicecoordinatore regionale lombardo di Forza Italia e candidato alle elezioni europee.

Mancavano invece solo venti giorni al voto quando il governatore leghista Attilio Fontana fu accusato di abuso d’ufficio per un incarico al socio di studio Luca Marsico, rimasto senza posto in consiglio regionale. «Vergognosi attacchi all’uomo, all’avvocato, a un sindaco e a un governatore la cui onestà e trasparenza non sono mai state messe in discussione in tanti anni, né mai potranno esserlo oggi o in futuro», disse Salvini. E anche nel caso del governatore l’inchiesta si chiuse con un’archiviazione.

La magistratura è anche intervenuta in momenti delicati come per l’indagine su Lorenzo Cesa, all’epoca dei fatti segretario nazionale dell’Udc, accusato dalla procura di Catanzaro di aver favorito le cosche di ‘ndrangheta. L’inchiesta si abbatté sulle trattative allora in corso per salvare il governo guidato da Giuseppe Conte e del suo M5s che era a caccia dei “responsabili” tentando di fare entrare in maggioranza anche i colleghi dell’Udc per non far naufragare l’esecutivo del leader grillino che, per sopperire all’uscita dalla maggioranza dei renziani di Italia viva, aveva trovato un accordo con i tre senatori democristiani Antonio De Poli, Antonio Saccone e Paola Binetti, con il benestare di Cesa. Il segretario una volta ricevuto l’avviso di garanzia si ritirò da qualsiasi trattativa, facendo naufragare quel tentativo e spianando la strada al governo Draghi. Mesi dopo l’accusa finì nel cestino su richiesta della stessa procura, e Cesa fu scagionato. Ma la bomba era ormai esplosa.

Ad infuriarsi, più recentemente, è stata sempre la Lega di Matteo Salvini per la diffusione della notizia dell’indagine a carico del governatore della Sardegna Christian Solinas, sostenuto proprio dal Carroccio per un “bis” alla guida dell’isola. Secondo la Lega, è «sospetta» la tempistica dell’indagine, arrivata nel bel mezzo delle tensioni nella coalizione di centro-destra per la scelta del candidato presidente per le scorse elezioni regionali. L’ordinanza firmata dal gip Luca Melis arriva da due filoni d’inchiesta che riguardano la compravendita di un terreno di Solinas e una nomina alla direzione generale dell’Autorità di gestione del programma Eni-Cbc Bacino del Mediterraneo.

Clamoroso il Vietnam giudiziario a cui è stato sottoposto Antonio Bassolino: diciannove processi e diciannove assoluzioni che ci restituiscono un paese nel quale un amministratore è colpevole nello stesso momento in cui riceve un avviso di garanzia, un paese la cui vicenda politica ed istituzionale degli ultimi decenni è stata profondamente condizionata dall’azione della magistratura, da inchieste che molto spesso si sono risolte in un nulla di fatto ma che quasi sempre hanno sortito effetti decisivi sul piano politico.

Last but not least lo scioglimento del comune di Bari quando il ministro dell’Interno Piantedosi ha preannunciato al sindaco Antonio Decaro la nomina di una “Commissione di accesso” per valutare se ci sono i presupposti per sciogliere il comune per infiltrazioni mafiose. La decisione è arrivata dopo una serie di arresti, su richiesta della Dda locale nei confronti di 130 persone per associazione mafiosa, estorsione, porto e detenzione di armi da sparo, commercio di droga e turbativa d’asta. L’inchiesta “Codice Interno”, che ha poi portato alle ordinanze di custodia cautelare, ipotizza l’ingerenza elettorale politico-mafiosa nelle elezioni comunali del 2019 e l’infiltrazione dei clan nell’Amtab, la municipalizzata del trasporto urbano. All’orizzonte lo scioglimento del consiglio comunale del capoluogo pugliese per mafia e un’eventuale incandidabilità del suo primo cittadino che si troverebbe all’improvviso da astro nascente del centrosinistra italiano a amministratore amico dei clan. È risaputo: una stella si trasforma in buco nero solo dopo l’esplosione.