Le vicende giudiziarie in Puglia
L’importanza (e la fortuna) di chiamarsi Michele Emiliano e non Peppino Cacace
Conosce gli uffici dei pubblici ministeri, e la facilità con cui cittadini innocenti finiscono in carcere? Per quegli stessi comportamenti che a lui paiono normali? O si ritiene immune da quel che capita agli altri?
Chissà se Michele Emiliano, ex procuratore dell’antimafia dai modi spicci e i risultati brillanti, e poi politico pronto a tutto perché il fine deve sempre prevalere sui mezzi, con la certezza che il Bene trionfi sul male, si stia rendendo conto dei rischi che corre con alcune sue imprudenze. La domanda è: Emiliano conosce la magistratura italiana da cui è fisicamente lontano da vent’anni benché con la toga virtuale ancora in spalla? Conosce gli uffici dei pubblici ministeri, e la facilità con cui cittadini innocenti finiscono in carcere per quegli stessi comportamenti che a lui paiono normali? O si ritiene immune da quel che capita agli altri? Se non ha visto la relazione del ministero di giustizia di pochi giorni fa, sappia che ogni ventiquattr’ore due innocenti finiscono in manette e che negli ultimi sei anni son state oltre quattromila le vittime degli errori dei suoi colleghi.
Certo, se fosse stato, più che un Mario Rossi del nord, un Peppino Cacace del sud, al posto di Michele Emiliano, a tenere certi rapporti e fare certe sparate, oggi potrebbe essere in carcere. Con accuse infamanti. E sarebbe un’ingiustizia. Una di quelle ingiustizie che riempiono i quotidiani quando è troppo tardi. Infatti noi non pensiamo, ma qualche pm potrebbe vederla diversamente, che sia un reato il fatto che il governatore della Puglia abbia raccontato sulla pubblica piazza, addirittura a una manifestazione della Cgil, di aver accompagnato il suo pupillo assessore poi futuro sindaco, Antonio Decaro, nella casa di una famiglia di mafiosi in piena Bari vecchia. No, che non è un reato, anche perché potrebbe trattarsi di una semplice vanteria. Da accertare, però, direbbe un pm “antimafia”. Se ne parlerà all’interrogatorio di garanzia. Ma con l’indagato in manette. Perché comunque, potrebbe sostenere ancora il pubblico ministero, il signor Cacace ha mostrato di avere una certa familiarità con i parenti del boss, è innegabile.
E si sa che in queste famiglie non esistono innocenti, semmai mafiosi non ancora scoperti. E del resto, è dimostrato che un certo ascendente sui suoi interlocutori l’indagato doveva pur averlo, se ha potuto raccomandarsi perché il suo protetto fosse trattato in guanti bianchi. Non è una suggestione, ma la dimostrazione dell’esistenza del vincolo associativo. Il signor Cacace è indagato per concorso esterno, perché gode di credito, all’interno della cosca mafiosa. In questo modo la rafforza, anche se dall’esterno. È per questo motivo che il giudice delle indagini preliminari, accogliendo la richiesta del pm, ha disposto la misura della custodia cautelare in carcere nei confronti del signor Peppino Cacace. La cui posizione si è in seguito aggravata per il sospetto di altri due reati a suo carico: concorso in rivelazione e utilizzazione di segreto d’ufficio, e favoreggiamento personale.
In questo caso, per l’accertamento dei reati, la procura non ha avuto nemmeno bisogno di intercettare o di attivare un trojan. Gli uomini della Regione hanno fatto tutto da soli, quando improvvisamente si è riunita la giunta, intorno all’ora di pranzo del 10 aprile, e ha approvato una delibera con cui revocava l’incarico di commissario straordinario all’agenzia Arti, conferito solo tre mesi prima, al signor Alfonsino Pisicchio, ex assessore regionale all’urbanistica. Che stava per essere arrestato, ma ne era ignaro.
Certo, nelle ore precedenti alle dimissioni forzate dall’agenzia, aveva ricevuto uno strano messaggio dal presidente della Regione, che gli ingiungeva di dimettersi subito dall’incarico, e lo informava del fatto che una vecchia inchiesta giudiziaria che lo vedeva indagato si era “riattivata”. Certo, non gli aveva detto “scappa”. Al contrario, sempre per far trionfare il Bene sul male, gli aveva imposto le dimissioni. Ma la malizia del pm di Bari, subito sposata anche dal gip, aveva interpretato quel messaggio WhatsApp in ben altro modo. E aveva mosso le due nuove contestazioni. Ma stiamo parlando del signor Peppino Cacace, non di Michele Emiliano.
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