Nel Si&No del Riformista spazio alla manovra del governo Meloni e alla bozza sulle pensioni: è giusto superare la Legge Fornero? Favorevole Marco Rizzo (Democrazia Sovrana Popolare) secondo cui l’Esecutivo ha fatto bene a superare la legge Fornero sulle pensioni ma, così facendo, ha “va contro le donne colpendo anche invalidi e caregiver“. Contrario l’economista Riccardo Puglisi, secondo cui: “Il rischio di riformare le pensioni senza badare ai conti è di rimanere sommersi”.

Qui il commento di Riccardo Puglisi:

“Le parole sono importanti”: la famosa frase detta da Nanni Moretti nel film “Palombella Rossa” prendeva di mira le frasi fatte che condiscono i discorsi, ma si può ovviamente reinterpretare in maniera diversa: in particolare, le parole sono importanti perché possono produrre effetti ingannevoli e distorcere la percezione della realtà sottostante. Nel caso delle pensioni, vi fu una scelta di parole importanti e ingannevoli con la riforma Dini del 1995, la quale introdusse – con un periodo di transizione vergognosamente lungo – il metodo di calcolo contributivo per le pensioni stesse. Anche in assenza della successiva riforma Monti-Fornero del 2011, il metodo di calcolo contributivo avrebbe a regime soppiantato il metodo di calcolo retributivo, dal momento che tutti coloro che cominciavano a lavorare nel 1996 erano interamente sottoposti a tale regime di calcolo – tipicamente meno generoso -, mentre chi già lavorava a fine 1995 avrebbe applicato pro quota il metodo contributivo per gli anni successivi, e mantenuto il calcolo retributivo per gli anni di lavoro precedenti. Si tenga poi presente, e qui sta la transizione lunga di cui dicevo sopra, che coloro i quali già lavoravano da almeno 18 anni al primo gennaio del 1996 sarebbe rimasti interamente assoggettati al più generoso metodo di calcolo retributivo.

L’aspetto ingannevole dell’espressione “metodo di calcolo contributivo” sta innanzi tutto nell’insopprimibile tentazione di abbreviarla in “metodo contributivo”. L’inganno contenuto nell’espressione compatta è presto detto: sembra che il sistema pensionistico italiano sia stato trasformato in un sistema a capitalizzazione, all’interno del quale i contributi pagati vanno a costituire un tesoretto investito in attività finanziarie di vario tipo, il quale – al momento del pensionamento – si trasformerà in una rendita vitalizia mensile, cioè in una pensione. Niente di tutto ciò è vero: il sistema pensionistico italiano, come la quasi totalità dei sistemi pensionistici pubblici in giro per il mondo, era e resta un sistema a ripartizione, che io preferisco definire “senza tesoretto”, ovvero un sistema in cui le pensioni pagate ai pensionati attuali sono finanziate dai contributi previdenziali pagati dai lavoratori attuali. E dove sono finiti i contributi pagati nel passato dai pensionati attuali?

Secondo un meccanismo ricorsivo, essi sono stati usati per pagare le pensioni di chi allora era in pensione, e così via. È impossibile condurre un discorso minimamente sensato sul sistema pensionistico senza tenere a mente questa essenziale caratteristica del sistema a ripartizione, che resta “senza tesoretto” anche quando subentra il metodo di calcolo contributivo: esso semplicemente associa la pensione elargita all’ammontare di contributi pagati nel corso della vita lavorativa. La riforma Monti-Fornero del 2011 ha esteso finalmente il metodo di calcolo contributivo a chi nel 1995 ne era rimasto esente a motivo di 18 anni lavorativi già passati, e ha innalzato l’età pensionabile inizialmente a 62 anni, con un meccanismo di aumento nel tempo fino a 67 anni, secondo un’applicazione del principio di realtà contabile: se l’età pensionabile viene aumentata – ad esempio di un anno – il sistema diventa più sostenibile dal punto di vista dei nostri conti pubblici, in quanto per quell’anno c’è una pensione in meno da pagare e un anno di contributi previdenziali in più. L’unico modo per permettere pensionamenti anticipati è di correggere verso il basso la pensione elargita: questo calcolo è automatico dentro il metodo contributivo, mentre deve essere esplicitamente previsto per chi ha ancora beneficia del calcolo retributivo, cioè i “salvati” dalla riforma Dini. Al contrario, il rischio di riformare (o contro-riformare) le pensioni senza badare alla realtà dei conti pubblici è quello di rimanere sommersi tutti.