Ma perché non fate come noi in Maryland? Interrogato da Floris, l’altra sera, Edward Luttwak proprio non riusciva a capire perché, approfittando del lockdown, delle scuole chiuse e del divieto di circolazione, a nessuno, in Italia, fosse venuto in mente di provvedere a quei lavori che altrimenti sarebbe difficile completare. Tipo? Rifare il manto stradale, tappare le buche e dare una ripassata alla segnaletica orizzontale. “Dopo torneranno le auto, cosa aspettate?”, ha insistito il tuttologo americano con casa sull’Atlantico. Noi a Napoli abbiamo il problema del Corso Vittorio Emanuele: bisogna asfaltare la prima “tangenziale” cittadina, i soldi ci sono, i progetti anche. Ma quando cominciare? Come fare senza mandare in tilt i flussi di traffico già condizionati dalle aree pedonalizzate? E come gestire le prevedibili proteste? Non sapendo come rispondere, finora il Comune ha deciso di non decidere: di saltare da un rinvio all’altro. Ora potrebbe essere il momento per rompere gli indugi.

Accadrà? Si accettano scommesse. Sta di fatto che de Magistris in questi giorni si è dimostrato sensibile solo alle ragioni della movida e della commercializzazione della pizza, non ad altro. E non risulta che abbia deciso di sfidare De Luca su temi più generali. La questione di fondo è quella della regionalizzazione dell’emergenza. A proposito, ieri il Mattino ha pubblicato una lettera, assai significativa, indirizzata a Conte. Eccola in sintesi. “Caro presidente, mi chiamo Tonino Miglionico, sessant’anni, sposato e padre di due figlie. Professione barbiere. Con questo mestiere mangiamo io e la mia famiglia dal ‘78, da quando ho alzato la prima volta la saracinesca in centro, a Potenza. Le domando: ma perché costringerci a stare chiusi se nella mia regione l’epidemia è sotto controllo e da tre giorni si registrano zero contagi?”. Luttwak e Miglionico pongono lo stesso, identico problema. Quello dell’exit. Di come uscire dal tunnel. In altre parole, ci ricordano che siamo nei guai fino al collo.

Ma ci invitano anche a domandarci perché vogliamo affrontarla procedendo a testa bassa, senza sfruttare i varchi che, pur tra mille difficoltà, talvolta si aprono. In effetti, abbiamo un sistema regionale, abbiamo un potere locale costituzionalmente garantito, e abbiamo sperimentato tutto questo per decenni, mentre ancora oggi è anche grazie a una simile complessa impalcatura statuale che stiamo per passare alla fase 2, quella della ripresa. E allora, stando così le cose, davvero riesce incomprensibile perché proprio ora – prima di rimettere mano, semmai ce ne sarà il tempo e la voglia, al titolo quinto della Costituzione che “governa” Regioni, Province, Comuni e aree metropolitane – si debba rinunciare ad azionare la leva dell’autonomia. Il virus che ci assedia è lo stesso, ma diversi sono gli effetti provocati regione per regione.

Lo ha detto anche Colao, il presidente del comitato tecnico scientifico, al Corriere, sebbene abbia fatto riferimento a soluzioni di “lungo termine”. Il problema è quanto lungo deve essere questo termine. E perché, nel frattempo, non portarsi avanti con il lavoro cominciando a delineare scenari possibili. Renzo Piano – ne abbiamo parlato ieri – propone a tutti il modello Genova, quello che ha permesso di realizzare in pochi mesi il ponte sul Polcevera. Luttwak suggerisce di fare come nel Maryland. E Miglionico, il barbiere di Potenza, invita a valutare la diversa condizione delle varie regioni. La peggiore soluzione sarebbe decidere “centralmente” di ignorarli tutti e tre. E per giunta attardandosi, in nome di uno Stato etico più che di diritto, a spiegare quali “congiunti” poter incontrare dopo il 4 maggio.