Caro Claudio,
La nostra storia, la storia del PCI, è inevitabilmente associata in grande parte al nome di Enrico Berlinguer. È stato il segretario della nostra giovinezza e degli inizi della nostra “carriera” nel partitone: “rivoluzionario e conservatore”, come lui stesso si definì e definì il carattere del PCI di allora. E in effetti, in alcuni tratti, fu decisamente un innovatore (compromesso storico, l’ombrello della Nato da preferire al rapporto con l’URSS, la democrazia come valore universale, proclamata in faccia ai bonzi comunisti di tutto il mondo, la fine della spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre), ma anche un conservatore che non recise mai decisamente i legami con quella storia, e non portò mai a fondo il processo di cambiamento verso un approdo compiutamente socialdemocratico. Erede in questo di quella doppiezza togliattiana, che forse nel dopoguerra fu una necessità, ma negli anni ‘70 e ’80 solo un elemento di confusione e di arretratezza.

Eppure, e di questo voglio discutere con te, godeva dentro il Partito e soprattutto fra i militanti di un consenso che rasentava l’idolatria. Forse è stato l’unico leader che militanti e iscritti avrebbero seguito, senza se e senza ma, di fronte a ogni scelta. Criticare Berlinguer era quasi praticamente impossibile. Ora è vero che i segretari di partito nella storia dei partiti comunisti hanno sempre goduto di un’area di intoccabilità molto forte. I meccanismi del centralismo democratico, la forma di governance adottata anche dal PCI, aveva bisogno che il chiavistello che stava in cima alla costruzione e ne assicurava la stabilità fosse esente dall’essere messo in discussione. Perché questo avrebbe aperto la porta a un confronto e ad eventuali cambiamenti, portatori di dubbio e di conflitto. Togliatti fu sostituito solo dopo la sua morte, Idem Berlinguer, Longo per una grave malattia, Natta, controvoglia, solo perché debilitato, ed è stato solo quando il conflitto è esploso con la svolta di Occhetto che i segretari si sono avvicendati in base a meccanismi più o meno democratici.

Ma Berlinguer era oggetto di vera e propria ammirazione, direi quasi di venerazione e di amore incondizionato, da parte del popolo comunista. Perché? Bella domanda. Certamente era un uomo dotato di un fascino particolare. Austero, pacato, serio, polemico quando necessario, ma rassicurante, sempre educato, timido ma alla mano, realista ma capace di evocare scenari futuri pieni di speranza, lontano da ogni mondanità, quasi l’amico fidato che ognuno avrebbe voluto avere, sicuro di non essere mai tradito. Questo suo fascino indubbiamente si rifletteva anche fuori dal partito e fu uno degli elementi del successo elettorale del PCI soprattutto negli anni ’70. Ma l’amore incondizionato di cui godeva fra i militanti non è spiegabile solo con queste qualità, in fondo umane. Apparteneva piuttosto ad un’epoca e ad una cultura che aveva in sé elementi forse più attinenti al campo della fede che a quello della ragione. Non fosse scomparso prematuramente nel 1984, 5 anni prima della caduta del muro di Berlino e del dissolvimento dell’impero sovietico, quale sarebbe stata la sorte del PCI? Da un lato Berlinguer avrebbe avuto il prestigio e il carisma per traghettarlo su sponde più sicure, ma temo che la sua formazione e la sua storia non gli avrebbero mai permesso di fare quel passo decisivo che sarebbe comunque stato necessario. Il fatto poi che il PD, il partito nato per superare quella storia e dare una prospettiva alla sinistra italiana, riproponga oggi il suo ritratto sulle tessere, lo leggo solo come il segno della totale insicurezza e incertezza della sua dirigenza. Ci si aggrappa al passato per colmare le lacune del presente.

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Caro Chicco,
il profilo importante, carismatico, ingombrante, irrisolto di Berlinguer è stato senza dubbio uno snodo fondamentale della nostra esperienza politica. E il solo fatto che sia ancora oggi celebrato, evocato, rimpianto, dimostra quanto abbia lasciato un segno. Come dici giustamente, un segno umano almeno forte quanto quello politico, perché non c’è dubbio che la sua figura minuta, la sua evidente timidezza, la sobrietà pacata, finanche ammorbante del suo eloquio, contribuirono a farlo diventare oggetto di venerazione. A dirla in una parola, Berlinguer era una figura ieratica: parlava con compostezza e gravità, senza gesti inutili, da sacerdote laico; il suo stesso volto appariva quasi immobile, sempre concentrato, pieno di dignità. Per questo non poteva non incutere – al di là della sua volontà – un assoluto timore reverenziale in chi si trovava ad incrociarlo.

Pensa alla sciagura che capitò a me quando, nella campagna elettorale del 1983, trascorsi da solo con lui 10 o 15 interminabili minuti. Accadde prima di un suo comizio in piazza Plebiscito, che io avrei semplicemente annunciato in quanto responsabile della stampa e propaganda della Federazione. I dirigenti massimi del partito (Bassolino, Donise, i parlamentari, tra cui Napolitano, Chiaromonte, insomma tutti i capataz) si erano già avviati verso il palco, a me toccò il compito di stazionare negli uffici del gruppo regionale del partito con lui e la sua scorta, prima dell’ingresso nella piazza calda e già osannante. Lui fumava, teneva sotto il braccio la classica mazzetta dei giornali (sbirciando, ricordo che mi fece impressione che si distinguesse tra le testate l’Osservatore Romano), si tratteneva, schivo e tranquillo, in un angolo della stanza. Nell’eternità opprimente di quei momenti, scambiò con me qualche sorrisino – ma tenero, non formale – e poi a un certo punto disse: “Forse ci siamo, che dici, andiamo?”. Io balbettai che aspettavamo un segnale dal servizio d’ordine della piazza per procedere. Quando finalmente il via libera arrivò, mi alleggerii del peso opprimente di quel quarto d’ora, anche se stavo per caricarmene uno più grande, visto che avrei dovuto introdurre il suo comizio. Tutto questo per dire del carisma dell’uomo, certo dovuto alla carica che incarnava, ma anche a quel profilo umano su cui ci stiamo soffermando.

Eppure – e veniamo al berlinguerismo politico – proprio in quegli ultimi anni della sua vita, il segretario del PCI stava dando, dal mio punto di vista, il peggio di sé. Rimasto orfano di Aldo Moro, e cogliendo l’occasione del devastante terremoto in Irpinia, a fine novembre del 1980 Berlinguer aveva abbandonato la politica del compromesso storico per abbracciare la strategia dell’alternativa democratica, mettendo al centro la questione morale, lanciandosi nella campagna contro gli euromissili (in sostanza a difesa degli SS20 sovietici), avviando polemiche feroci nei confronti del nuovo corso socialista, allontanando così ogni prospettiva di governo. Insomma facendo decisamente marcia indietro, rispetto alle aperture politiche e di principio che avevano portato ai successi degli anni’70. Tu ti chiedi se Berlinguer avrebbe avuto il coraggio e la forza di imprimere la svolta che – con tutti i limiti – Occhetto lanciò dopo la caduta del Muro. Io penso di no, e ti invito a rivedere un Faccia a Faccia con Minoli realizzato proprio ad aprile del 1983 per comprenderlo a pieno.

Uno splendido prodotto giornalistico, che indaga con la riconosciuta acutezza dell’inventore di Mixer l’uomo Berlinguer, la sua formazione, il suo fascino, ma ne mette anche allo scoperto i limiti invalicabili. Come sempre sono i particolari a rivelare le verità profonde. Verso la fine dell’intervista Minoli gli chiede a quale leader politico internazionale si ispiri maggiormente, e lui risponde testualmente: “Avrei detto Tito o Ho Chi Minh, ma non ci sono più”. E già qui c’è da trasalire, perché non fa riferimento proprio a degli stinchi di santo. Quando poi Minoli lo incalza, chiedendogli di un politico vivo, Berlinguer fa candidamente il nome di János Kádár, capo del partito comunista ungherese, che preferisce a chiunque altro. Neanche un accenno a qualsivoglia leader dell’Occidente. Questo era Berlinguer. Non un visionario, un innovatore, un anticipatore. Semplicemente un uomo del suo tempo, niente di più niente di meno.

Chicco Testa e Claudio Velardi

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