Sembra una scena che arriva direttamente dalla Guerra Fredda, quando gli oceani erano il palcoscenico della sfida tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Invece, quanto accaduto in questi giorni al largo dell’Alaska ci ricorda che anche l’attuale sfida tra superpotenze si proietta su diversi settori del pianeta. Anche in luoghi distanti dalle cronache quotidiane. Cina e Russia hanno inviato 11 navi militari intorno alle Isole Aleutine. Il primo a dare la notizia è stato il Wall Street Journal, che aveva rassicurato, dalle proprie fonti, che nessuna unità aveva raggiunto le acque territoriali Usa.

La Us Navy ha risposto inviando quattro cacciatorpediniere e almeno un aereo P-8 Poseidon. Un modo per monitorare quanto accadeva al largo dell’Alaska, ma anche per rispondere a quello che per gli esperti Usa è stata a tutti gli effetti una provocazione. Perché se è vero che Cina e Russia hanno spesso navigato intorno a quelle isole negli ultimi anni, un numero così elevato di imbarcazioni non era mai stato registrato. Una prima volta che preoccupa il Pentagono ma anche la Casa Bianca, che devono fare i conti con un messaggio forte e molto probabilmente inaspettato.

Il Pacifico, in questi ultimi anni, è stato considerato uno teatro bollente soprattutto per il fronte sud, ovvero lo Stretto di Taiwan e il Mar Cinese Meridionale. Tutt’al più si è parlato delle acque del Mar del Giappone per i testi missilistici della Corea del Nord. Ma l’avvicinamento di undici navi da guerra cinesi e russe al quarantanovesimo Stato americano era considerato un’ipotesi non impossibile, certo, ma quantomeno di difficile realizzazione. La mossa invece c’è stata e ha provocato non pochi imbarazzi anche interni alla politica Usa, preoccupata dal fatto di non riuscire a inviare un messaggio altrettanto forte nei confronti delle potenze rivali. L’ex presidente Donald Trump, attraverso la piattaforma Truth, ha scritto che “Russia e Cina non avrebbero mai avvicinato così pericolosamente le loro navi alla costa dell’Alaska” se lui fosse stato ancora alla Casa Bianca. Mike Pence, l’ex vicepresidente repubblicano, è tornato sull’episodio dicendo che “sotto il presidente Biden, Russia e Cina minacciano di conquistare i loro vicini e adesso il loro nuovo Asse opera a largo delle coste americane”.

Non solo. Pence ha anche detto che “l’America ha bisogno di un comandante in capo che comprenda questa minaccia e costruisca una Marina Militare più forte”, mettendo in chiaro uno dei punti che da più tempo viene segnalato dagli analisti e dagli esponenti della forza navale statunitense, ovvero l’assenza di fondi e programmazioni alla pari di quelli della flotta cinese. Tutto questo rientra chiaramente anche in una pura logica elettorale. A un anno e poco più dalle presidenziali, parlare della minaccia sino-russa al largo dell’Alaska solletica l’elettorato repubblicano e serve anche a rilanciare l’immagine di una superpotenza in affanno con Biden alla guida o troppo impegnata in conflitti lontani quando i nemici si avvicinano alle sue coste.

Un argomento che piace specialmente all’ala trumpiana, che da tempo raccoglie intorno a sé il consenso del segmento “isolazionista” Usa e che mentre prima criticava le “guerre infinite” in Medio Oriente e Afghanistan, ora vede con poca convinzione l’impegno nella causa ucraina. Al netto della questione elettorale c’è poi un tema strategico, e riguarda la corsa all’Artico. Da tempo Mosca, Pechino e Washington guardano con molta attenzione alle risorse racchiuse nella parte più settentrionale del globo, e le rotte polari, per molti esperti, rappresentano potenziali corridoi del traffico merci in grado di cambiare in futuro l’economia globale. Elementi sufficienti per far capire perché tutti i documenti strategici degli Stati che si affacciano sull’Artico o sull’Alto Nord si concentrano su questo nuovo potenziale scenario dello scontro tra superpotenze. La corsa al Polo, come dimostrato anche dalla militarizzazione delle coste russe, è iniziata.