C’è una linea sottile, ma netta, tra la difesa dei civili innocenti e la legittimazione — consapevole o meno — della violenta retorica palestinese. Zohran Mamdani, attuale candidato democratico alla carica di sindaco di New York, ha deciso di ignorarla. E in una città come New York, simbolo di pluralismo ma anche teatro di profonde ferite antisemite, questa non è una svista. Questa è una chiara responsabilità politica. Durante una sua intervista, Mamdani ha rifiutato di condannare lo slogan “Globalize the Intifada”, sostenendo che “intifada” significherebbe semplicemente “resistenza” e spingendosi fino ad associare il termine alla rivolta del Ghetto di Varsavia. Si tratta palesemente di un’operazione retorica tanto spericolata quanto storicamente insostenibile.

L’intifada

È difficile pensare a una forzatura più grottesca: la disperata insurrezione degli ebrei del Ghetto, condannati allo sterminio nazista, paragonata alla seconda intifada — una campagna in cui autobus, mercati, scuole e ristoranti israeliani divennero bersagli di attacchi suicidi e attentati indiscriminati. Parlare dell’intifada come se fosse un simbolo innocuo di emancipazione, o una parola neutra da interpretare a piacimento, non è solo storicamente falso, è soprattutto moralmente ripugnante. Non serve essere esperti di Medio Oriente per comprendere che il termine, almeno nel suo uso contemporaneo e politico, evoca violenza e martirio, non certo dialogo o convivenza. E non serve essere studiosi dell’Olocausto per capire quanto sia offensivo e intellettualmente disonesto accostarlo alla memoria della Shoah. Ma ciò che più inquieta, in questo caso, non è solo il contenuto delle parole di Mamdani, bensì la loro funzione in chiave di comunicazione politica. Dietro l’ambiguità calcolata si cela una strategia molto più subdola. Quella della delegittimazione sistematica del dolore ebraico, in nome di una presunta causa “più grande”, “più giusta”, “più urgente”.

Hamas e Israele

È il solito schema del mondo socialista all’americana, che finisce per amoreggiare con la retorica dell’odio pur di mostrarsi inflessibile nella sua ortodossia ideologica. Si celebra la complessità quando si parla di Hamas, ma si semplifica quando si tratta di Israele; si evocano sfumature quando si usano slogan intrisi di violenza, ma si accusano gli altri di oppressione al primo dissenso. Difendere i diritti dei palestinesi, soprattutto quelli che si oppongono ad Hamas, può essere una causa legittima. Magari non condivisibile da tutti, ma non per questo non accettabile in un contesto dialettico democratico. Ma non richiede lo sdoganamento di parole che inneggiano all’intifada, né la riscrittura dei fatti storici, né tantomeno l’appropriazione indebita del linguaggio della memoria ebraica per giustificare narrazioni violente. Non è necessario — né accettabile — cercare legittimità politica accostando le vittime della Shoah ai perpetratori di attentati suicidi. Questo non è coraggio politico. È un cancro morale. In un momento in cui gli atti antisemiti aumentano nel mondo — dalle università americane fino alle strade d’Europa — le parole dei leader, o aspiranti tali, contano più che mai.

La leadership non si misura con l’infiammare i cortei

Le comunità ebraiche lo sanno bene: ogni slogan lasciato passare, ogni ambiguità tollerata, è un varco aperto all’odio che ritorna. Un uomo politico che non riesce a distinguere tra lotta e terrorismo, tra resistenza e culto della violenza, non ha le qualità morali né la lucidità etica per guidare una città come New York. Essere sindaco della metropoli più complessa e simbolica del mondo non significa fare il battitore d’asta del consenso militante. Significa essere custode della coesione civile, della memoria storica e della sicurezza di tutti, anche — e soprattutto — delle minoranze che hanno già conosciuto l’odio, l’espulsione, la segregazione. E questo vale tanto per gli ebrei quanto per qualsiasi altra comunità. La leadership non si misura con l’infiammare i cortei, né con l’adesione cieca a ogni parola d’ordine militante. Si misura con la capacità di dire no quando il tuo stesso campo ideologico ti spinge a dire sì. Zohran Mamdani ha avuto l’occasione di tracciare una linea di chiarezza, di rigettare uno slogan che legittima l’odio.

Ha preferito restare nel vago, tra le maglie dell’ambiguità. Ha scelto il consenso. E New York, con la sua storia, con le sue comunità, con le sue cicatrici, merita molto di più. Per questo è auspicabile che i cittadini newyorkesi scelgano un’altra strada. Che dimostrino, con il voto, che chi banalizza la violenza e gioca con la memoria storica non è degno di guidare la loro città. Mamdani non deve diventare sindaco: sarebbe un segnale devastante, non solo per New York, non solo per la sua comunità ebraica, ma per l’intera civiltà democratica americana e occidentale.

Andrea Molle

Autore