Quando un film avente ad oggetto una vicenda storica nonché giudiziaria si annuncia mediante una pubblicità che ripete spesso: «la verità esiste» ed il regista dichiara che «il vero senso del film è spiegare ai ragazzi d’oggi cos’è stato quel tempo e quell’età», allora l’opera deve essere valutata secondo criteri storiografici, oltre che cinematografici. È il caso di Romanzo di una strage, diretto da Marco Tullio Giordana.  Intorno a Romanzo di una strage, al libro Il segreto di Piazza Fontana del giornalista Cucchiarelli da cui il film è stato «liberamente tratto» e ai temi ivi trattati si è aperto un ampio dibattito. Al film e al libro –tra i quali esistono differenze, ma secondarie rispetto alle analogie – i commentatori hanno mosso numerosi rilievi. La peculiare tesi di Cucchiarelli prima e di Giordana poi è che le bombe di Piazza Fontana fossero non una ma due; la prima di bassa potenza, simbolica o quasi, piazzata da qualcuno (Valpreda secondo il libro, manovalanza fascista secondo il film) il quale ignorava che altri avrebbero affiancato alla sua un secondo ordigno destinato invece a fare una strage. Il segreto cui allude il titolo del libro di Cucchiarelli e che viene rappresentato nel film di Giordana è un presunto patto tra Moro e l’allora Capo dello Stato Saragat stretto il 23 dicembre 1969, e da allora sempre rispettato da apparati pubblici e forze politiche sia di maggioranza, sia di opposizione, che avrebbe impegnato l’esponente Dc a occultare la verità in cambio della dismissione di qualsivoglia tentazione eversiva da parte del Quirinale.

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Come ha osservato Stajano, Giordana «ha imboccato la via del realismo nutrita di finzione», commettendo così un errore «in cui non sono caduti né Francesco RosiGillo Pontecorvo». Rosi, a proposito di Romanzo di una strage, ha dichiarato che «quando si trattano avvenimenti che riguardano la nostra vita pubblica, l’unica cosa che bisogna tener presente è la verità giudiziaria, bisogna procedere senza mai perderla di vista». Viceversa, Giordana si è discostato spesso e volentieri dalle sentenze e ha eletto quale suo principale riferimento un libro che dagli esperti aveva ricevuto molte più stroncature che consensi. Il dissenso rispetto ai giudicati penali è un diritto, ma andava esplicitato ed evidenziato, altrimenti lo spettatore poco informato è indotto a credere erroneamente che la ricostruzione cinematografica sia in linea con le ricostruzioni giudiziarie. In mezzo alle tante scene sufficientemente corrispondenti a episodi documentati ce ne sono altre, formalmente indistinguibili dalle prime, inventate di sana pianta o che deformano la realtà storica introducendovi elementi spuri. Le falsità prodotte dall’intreccio tra storia e fiction talvolta sono di poco conto, talaltra no. Ad esempio, che Junio Valerio Borghese abbia telefonato irato a non si sa chi, lamentando che l’attentato non avesse provocato la proclamazione dello stato di emergenza, è un’invenzione cinematografica la quale suggerisce un’ipotesi sul movente e sugli autori della strage mentre Borghese, che fu alla testa del colpo di Stato abortito tra il 7 e l’8 dicembre 1970, è invece estraneo al massacro di Piazza Fontana. Delle Chiaie, capo di Avanguardia Nazionale, fu accusato di essere il mandante della strage ma fu assolto con formula piena, dunque non si spiega la sua ricorrente presenza nel film. Sono fantasie i colloqui tra Moro e un ufficiale dei Carabinieri il quale il 20 dicembre gli avrebbe promesso un rapporto contenente la verità sulla strage, che l’uomo politico avrebbe portato tre giorni dopo a Saragat – in un incontro altrettanto privo di riscontri – e sarebbe stato da loro insabbiato di comune accordo.

Il deus ex machina che nel film informa Moro poteva avere smascherato Freda e Ventura entro il 20 (o 23) dicembre 1969? No. La pista Freda-Ventura fu originata dalla testimonianza di Lorenzon, verbalizzata il 15 gennaio 1970, e decollò soltanto dopo il fortuito ritrovamento di armi a Castelfranco Veneto di fine 1971, che diede i primi sostanziosi riscontri alle dichiarazioni del titubante teste. Moro, nel memoriale vergato durante il sequestro di cui fu vittima, disse anzi di non essere «depositario di segreti di rilievo» in materia di stragi: «quanto a responsabilità di personalità politiche per i fatti della strategia della tensione non ho seriamente alcun indizio. Posso credere più a casi di omissione per incapacità e non perspicace valutazione». Per di più, un incontro tra lui e Saragat il 23 dicembre avrebbe potuto decidere ben poco, sia perché Moro all’epoca era in minoranza nella Dc, sia perché già il 15 i partiti di centro-sinistra avevano risposto politicamente all’attentato rafforzando i legami di coalizione e impegnandosi a formare un nuovo governo. L’immagine dell’antifascista Saragat alleato con i fascisti stragisti è una tragicomica montatura. Sul piano metodologico, fonti anonime non vanno bene né nei tribunali, né nei libri di storia. Di conseguenza, è squalificato il contributo proveniente da un fascista ignoto (inesistente?) cui si richiama Cucchiarelli. Il principio vale anche per il volume Il segreto della Repubblica da cui ad ottobre 1978 partì l’idea – recepita da Giordana – che l’inchiesta su Piazza Fontana fu depistata dal patto tra Moro e Saragat di cui sopra. Infatti, Il segreto della Repubblica si basa su confidenze che sarebbero state fatte a Fulvio e Gianfranco Bellini da un fantomatico “conoscente inglese” di cui Fulvio, interrogato dal giudice Salvini, ha sostenuto di non avere mai saputo né nome né cognome.

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L’ipotesi della doppia bomba, la quale, per coerenza, richiede pure due attentatori, due taxi che li accompagnarono sul luogo, due cordate di mandanti, due scopi – in pratica, «doppio tutto» – fu criticata già nel 2009 da Giannuli e altri. Nel 2012 fu la volta di Boatti, che tuonò contro il «delirio di sdoppiamento» prolifico di «soggetti che si moltiplicano con geometrica espansione», e di Sofri che attaccò il «Raddoppio Universale» con una serie di contestazioni. Da ultimo, la Procura di Milano sancì «l’assoluta inverosimiglianza» della teoria della doppia bomba. Romanzo di una strage e Il segreto di Piazza Fontana sfiorano anche altre drammatiche vicende degli anni 70, prospettandole in modi assai discutibili. Qui non si può rettificare tutto quel che si dovrebbe, ma almeno un paio di cose sì. La prima riguarda Feltrinelli, che morì accidentalmente mentre manipolava esplosivo. Nel film, mediante la trovata di una telefonata, si insinua un’immotivata incertezza sull’episodio. La seconda concerne l’omicidio del commissario Calabresi, delitto per il quale furono condannati alcuni esponenti di Lotta Continua. Il film dà pochissimo spazio alla lunga campagna diffamatoria contro Calabresi svolta da Lotta Continua e molto invece a un’indagine su un traffico di armi e di esplosivi e ad un immaginario colloquio tra lui e il prefetto D’Amato, inducendo a sospettare un nesso causale con il delitto. Non ci si inganni (…) il colloquio Calabresi-D’Amato alla vigilia della morte del primo è doppiamente falso; perché non si verificò, e perché a D’Amato si attribuiscono frasi che in parte sono di Taviani, in altra parte riflettono le opinioni di Cucchiarelli e sono agli antipodi di quel che D’Amato abbia mai detto. L’Italia superò la prova del terrorismo (…) spacciarla per una Repubblica fondata sul fango è ingiusto, prima ancora che oltraggioso nei confronti della Repubblica stessa, degli uomini che furono in prima fila a difenderla e del popolo intero che, ribadendo fedeltà alle istituzioni e voltando le spalle agli eversori, creò il fondamentale presupposto affinché le minacce fossero sventate. Hanno invitato, inascoltati, «con urgenza il potere giudiziario» a «una postura rigorosa di rispetto e di osservanza delle leggi e della Costituzione». La questione è la solita: come si devono usare le dichiarazioni di chi accusa qualcun altro in un’inchiesta? E soprattutto: cosa è legittimo fare per ottenerle?

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In alcuni casi sono saltate fuori le prove dei fatti contestati, presentate come tali in processi arrivati a sentenza. Ma a tenere in piedi la Lava Jato sono le delazioni premiate a tappeto di detenuti in via preventiva che, magicamente, escono dal carcere appena indicano il nome di un presunto corrotto. Che non viene mai trattato come tale, ma finisce sbattuto nelle aperture dei tg come fosse un reo confesso. A osservare il dettaglio delle principali inchieste, a controllare sul calendario i nomi di chi esce e di chi entra dalla cella, il timore che la prigione preventiva sia usata per forzare la chiusura degli accordi di collaborazione, sembra fondato. Nel bel mezzo della guerra in corso, anche dentro l’avvocatura brasiliana si è scatenata più di una battaglia. Approfittando del rifiuto di alcuni studi legali di difendere gli imputati che firmano accordi di delazione premiata, spuntano come funghi avvocati che si stanno specializzando nella contrattazione con l’accusa, per conto dell’assistito, per accedere ai benefici offerti a chi collabora. Benefici che, a volte, somigliano a un regalo. Prendiamo il caso di Joesley Batista, il proprietario della principale azienda mondiale per l’esportazione di carne, la Jbs. Incastrato da intercettazioni pesanti, Batista ha confessato e descritto il giro vorticoso di tangenti che gli ha consentito, tra l’altro, di evadere tutte le tasse sull’export. Il contratto di delazione premiata da lui firmato gli ha permesso di dirsi colpevole della corruzione dell’intera classe dirigente brasiliana degli ultimi quindici anni – destra, sinistra, centro, più alcuni giudici – pagata secondo le sue accuse con milioni di dollari per un’enormità di favori illeciti, e di scampare illeso dal processo vendendo la testa dei politici da lui accusati in cambio dell’impunità. Ha confessato crimini clamorosi ed è improcessabile. La notizia non è stata presentata come scandalosa e non ha fatto scandalo. Il biglietto da pagare per lo show.

 

Brano tratto da “La strage di piazza Fontana tra storia e fiction”  in “Nuova storia contemporanea” (numero 3/2012)