La peggiore delle reazioni al populismo è l’antipopulismo. Un’affermazione autoreferenziale delle élites in declino, che si aggrappano a valori astratti per sopravvivere a un altro turno elettorale. […] Poi c’è la reazione, chiamiamola così, del senso di colpa elitario: abbiamo sbagliato noi! Non ci siamo accorti che le persone sono più povere, che la trasformazione digitale avrebbe portato tanti a perdere il posto di lavoro, che l’immigrazione non è stata capita e governata, che abbiamo ecceduto nel liberismo sfrenato e allora dobbiamo fare le stesse politiche proposte dai populisti, ma noi siamo colti e le facciamo sicuramente meglio. […] Il lavoro che troviamo in queste pagine invece, a mio avviso, è la reazione più seria. La reazione di chi cerca di capire perché. Cosa è successo, quando è successo che le élites hanno perso la capacità di comprendere il loro popolo? Quando hanno perso la capacità di proteggerlo, di rassicurarlo? Quando hanno rinunciato al loro ruolo? […] Capire, infatti, è il primo passo di un lungo cammino necessario a ricostruire il rapporto di fiducia tra popolo ed élite. […]

Si è così arrivati alle radici più profonde della nostra crisi, a partire dalla fine degli anni Sessanta e dalla cedevolezza della cultura cristiana e riformista all’egemonia di élite alto-borghesi, minoritarie, anti-sistema. E così si è ridimensionato il ruolo della famiglia, è stata distrutta la scuola italiana, le politiche del lavoro sono state scritte solo per i garantiti, i sistemi di welfare sono stati interamente posti a carico dello Stato, si è semplicisticamente aggiunta l’enorme inefficiente infrastruttura legislativa regionale al già pesante sedimento regolatorio centrale. Su questa “cultura” si sono appoggiati non a caso i vizi del nostro sistema giudiziario e dell’informazione. Sono infatti degli anni Settanta le politiche che hanno cominciato a minare il nostro Stato di diritto e i fondamentali della nostra vitalità economica e sociale. Si produce lì il primo duro colpo all’etica della responsabilità. È lì che l’élite culturale autoreferenziale ha iniziato a generare le dinamiche che con sempre maggior evidenza hanno messo in discussione il benessere del nostro ceto medio conquistato negli anni della ricostruzione e dello sviluppo industriale. Essa ha difeso il proprio ruolo, non ha accettato il rischio e la concorrenza, ha preferito un Paese che arretrava dal punto della grande competizione internazionale pur di conservare il proprio status. […]

Una visione dello status quo da preservare, timorosa di ogni vero e profondo cambiamento. Imprenditori che non hanno cercato di generare nuovo mercato. Hanno avuto timore di una domanda pubblica differente che li costringesse a qualificare la propria offerta; della rinuncia agli incentivi in cambio di sistemi trasparenti e automatici di vantaggio fiscale dei quali potessero beneficiare tutti, anche i concorrenti; di metter in discussione le comode regole contrattuali centralizzate e omologate per non faticare con accordi in azienda legati alla produttività effettiva; delle ipotesi di taglio della spesa pubblica, premessa necessaria per la rivoluzione fiscale tanto evocata; delle riforme pensionistiche per poter scaricare sul debito pubblico il costo delle ristrutturazioni industriali; di ogni legittima contestazione del sistema giudiziario anche quando decimava le attività economiche del paese.

Aumentando così la diffidenza verso una classe imprenditoriale isolata e autoriferita. Pensiamo ai giornalisti, molti asserviti al mainstream culturale o agli editori in pieno conflitto di interesse. Travolti dal web, hanno perso capacità di indagine e di inchiesta. Hanno smarrito il ruolo di critica verso il potere e di guida culturale. Generando così sempre più diffidenza verso l’informazione dei media tradizionali e riversando sui social la domanda di informazione, con tutte le evidenti conseguenze dal punto di vista della qualità e dei rischi di manipolazione. Ricostruire la fiducia verso il merito e la competenza vuol dire mettere davvero alla prova merito e competenza. Vuol dire riscoprire i valori dello Stato di diritto, difendere le prerogative di una nazione che è forte se lo è nelle sue persone che si fanno società e nella sua flessibile capacità di innovare.