“Forse un cane sarebbe stato trattato meglio di mio padre”. Marco Caterino, 24 anni, di Casal di Principe in provincia di Caserta, ha negli occhi tanto dolore per aver visto morire suo padre senza poter fare nulla per aiutarlo. Francesco Caterino aveva 59 anni e aveva contratto il coronavirus. Non ce l’ha fatta a vincere la sua lotta contro il virus. Una lotta fatta di scontri e disperazione per non riuscire ad essere ascoltato e tutelato. “Io ho visto una mancanza totale di umanità da parte di persone che hanno fatto il giuramento di Ippocrate – dice Marco – Ma in questa emergenza sembra che non valga più niente”.

Nella sua mano ci sono ancora i segni di tanta rabbia: “Quando hanno ricoverato mio padre la rabbia era troppa e ho dato un pugno su un muro e mi sono rotto la mano – continua il racconto Marco – Se non vieni ascoltato cerchi un modo anche con la forza di far valere i tuoi diritti”. Marco è uno studente univeritario dal carattere molto mite che mai avrebbe pensato di perdere la pazienza in questo modo. L’episodio è stato il picco di una settimana di patimenti.

“Quando abbiamo saputo che mio padre era positivo al coronavirus lo abbiamo tenuto a casa per una settimana come da prassi – racconta – Amici medici ci hanno detto cosa fare perché il team Covid non ci rispondeva nemmeno al telefono. Poi mio padre peggiora e sono dopo aver chiamato tre volte l’ambulanza riusciamo ad ottenere il ricovero. Ma gli operatori dell’ambulanza non si avvicinano nemmeno a mio padre perché avevano paura di contrarre il virus. Hanno dato a me e a mia madre la tuta di biocontenimento da far indossare a mio padre. Noi eravamo sprovvisti di qualsiasi protezione e potevamo anche ammalarci”.

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Qui comincia il pellegrinaggio in ambulanza alla ricerca di un posto letto per il ricovero. “Siamo andati all’Ospedale di Caserta ma abbiamo scoperto che c’era stato un errore di comunicazione per cui lì il posto non c’era – dice Marco – Abbiamo aspettato ore in cui mio padre non poteva né bere né andare in bagno”. All’epoca dei fatti in quelle ore stava aprendo un reparto Covid a Santa Maria Capua Vetere, all’ospedale Melorio. “Anche lì non viene accettato subito e aspettiamo altre ore in barella in attesa del posto letto – continua Marco – Lo hanno scaricato lì come un sacchetto dell’immondizia e nell’attesa ha perso una giornata di cure”.

“Doveva mettere il casco per l’ossigeno ma preferì farsi intubare in coma farmacologico – continua Marco – L’Ospedale Melorio però al tempo non era provvisto di rianimazione e terapia intensiva. Così è stato trasferito al centro Covid di Maddaloni: un’operazione durata 7 ore tra problemi e ritardi di ogni sorta. Poi quello che dall’interno mio padre ha potuto raccontare al telefono a mia madre lascia intendere tutto l’abbandono in cui versavano i pazienti di quel reparto. Diceva che erano macellai e che lui si sentiva come al mattatoio. Uno degli altri pazienti ricoverati insieme a mio padre ci raccontò che mentre lui esalava gli ultimi respiri il personale sanitario era impegnato nel pranzo e nessuno intervenne”.

Francesco è moto 4 giorni dopo essere stato trasferito a Maddaloni. “Abbiamo dovuto aspettare anche per avere la salma – conclude Marco – evidentemente c’erano problemi anche con le pompe funebri che immagino siano gestite dalla camorra: anche in quella triste situazione abbiamo dovuto chiamare i carabinieri. Abbandonati ancora una volta”.

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Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. È autrice anche di documentari tra cui “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.