“Mio padre, affetto da Covid, ci ha messo 5 giorni per avere un posto letto dopo una baraonda di telefonate a operatori sanitari senza umanità. La sua morte è una vergogna”. Michele Diana, ha rabbia e dolore per la morte del suo papà Vincenzo. Era un imprenditore di 57 anni di Casal di Principe. Aveva scoperto di aver contratto il Covid e nel giro di una settimana la sua situazione è precipitata, nell’inerzia di un sistema sanitario ormai paralizzato dall’aumento dei contagi.

In una prima fase Vincenzo è stato a casa in isolamento come prevedono le procedure. Ma è subito iniziata un’Odissea tra telefonate a vuoto e giri per gli ospedali in cerca di un posto letto disponibile. “Quando abbiamo avuto l’esito positivo del tampone, fatto privatamente, abbiamo informato il nostro medico di base come vuole il protocollo – racconta Michele – Ma l’Asl non ci ha mai contattati perché il nostro medico di famiglia si era dimenticato di avvisarla. A quel punto abbiamo provato a contattare noi l’Asl ma non ci ha mai risposto”.

A quel punto la famiglia decide di contattare il cardiologo che aveva Vincenzo in cura: l’imprenditore era cardiopatico, diabetico e con un pregresso enfisema polmonare. “Dopo 4 giorni di febbre riusciamo a contattare il team covid che si dedica in maniera tecnica alla questione – continua il doloroso racconto Michele – mio padre continua ad avere febbre e piano piano inizia a desaturare sempre più, giungendo a saturazione 94 (minimo fattibile), gli raddoppiano le cure, aggiungono farmaci. Si giunge dopo una settimana ad un’unica soluzione: il team covid decreta che mio padre debba essere ricoverato dopo aver fatto a casa emogas e prelievo ematico”.

Il 30 ottobre la famiglia chiama la prima ambulanza. “I medici guardano mio padre da lontano e confermano la terapia dicendo: la saturazione fino a 94 è giusta, se scende sotto i 90, ricoveriamo, ci hanno detto – continua il racconto Michele – Nel mentre la saturazione scende e il team covid è sempre piu convinto del ricovero”. Il 31 ottobre richiamano l’ambulanza ma i medici continuano a dire che può non essere ricoverato sebbene il team Covid ne sostenga la necessità. Finalmente il 2 novembre il team Covid contatta la famiglia Diana per avvisarli che si è liberato un poso letto all’ospedale di Aversa in alternativa a quello di Santa Maria Capua Vetere dove in un primo momento si era ipotizzato il ricovero.

“L’ambulanza del 118, allertata dal team covid, arriva alle 3:30 di notte e dice che non è mai stato vero che c’erano i posti letto e loro non sanno dove portare mio padre – continua a raccontare Michele – Il centralino risulta fuori posto. Mio padre intanto continuava a desaturare , mantenendo a stento i limiti, non quelli consentiti del 94 , ma giungendo a limiti improbabili (15unità di ossigeno per 80 di saturazione)”.

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Poi il 3 novembre i Diana richiamano l’ambulanza alle 08:30. “Alle 10:35 mi richiamano per avere conferma del fatto che io ne avessi ancora bisogno, alle ore 12:45 (quando io ormai esausto stavo recandomi al pronto soccorso, nella confusione più totale di pareri discordanti sulla possibilità o meno di presentarsi in pronto soccorso con un covid positivo) arriva l’ambulanza, da cui ne scende un medico vestito come a Milano si va a passeggiare in Sempione , con una semplice mascherina chirurgica privo di qualsiasi mezzo esistente atto a prevenire contagi e ci dice che mio padre non ha nemmeno la bronchite e non va ricoverato”.

“Dopo le nostre insistenze riusciamo ad ottenere un ‘passaggio in ambulanza’ alla clinica di Castel Volturno che Vincenzo De Luca aveva detto di aver attivato in funzione covid durante la diretta del venerdì precedente. Ma lì non c’era nulla di aperto. Per cui ci spostiamo all’ospedale Moscati di Aversa, ma anche lì posto non ce n’era. La dottoressa del pronto soccorso vieta la somministrazione da parte degli operatori del 118 di ossigeno e di farmaci di fruizione dell’ospedale. Per cui ci organizziamo in famiglia recuperando bombole d ‘ossigeno trovate nelle farmacie della zona e con farmaci che avevamo a disposizione. Ancora una volta la sanità ha negato a mio padre il diritto inviolabile e fondamentale della costituzione”.

“Il medico del 118 durante tutto il periodo d’attesa continua nell’arte di convincere mio padre a tornare a casa continuando a dire che non aveva nemmeno la bronchite e invece in ospedale avrebbe rischiato maggiormente di prendersela. Ma lui ce l’aveva già da una settimana ormai”.

Finalmente Michele trova posto nell’ospedale di Caserta. “Dopo due giorni in ventilazione c-pap , mio padre inizia a lamentare un dolore alla gamba e da lì viene avvertito il cardiovascolare che diagnostica un trombo alla vena femorale, lo operano d’urgenza ma non si è mai svegliato”. La famiglia Diana è affranta dal dolore per la perdita di Vincenzo e non si dà pace: vuole sapere bene il perché di quella morte. “È stato tutto quel ritardo ad uccidere mio padre? Se è così chi ha sbagliato deve pagare per tutto quella inumanità”.

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Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. È autrice anche di documentari tra cui “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.