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L'analisi
Post Stellantis, con la desertificazione industriale l’Europa rischia il tracollo. Tra competitività persa e dipendenza dalla Cina
Fonderie, siderurgia, chimica: le imprese lanciano l’allarme sul futuro della Ue. La definitiva deindustrializzazione rischia di diventare presto una triste realtà
La settimana di passione per l’auto europea sembra non essere terminata. L’Italia infatti è rimasta assorta sui destini di Stellantis, più di carattere societario che industriale. Tuttavia questa inevitabile attenzione ha un po’ distolto lo sguardo da quello che succede in Germania, dove lo sciopero a oltranza indetto da IG Metall (di fatto la Fiom tedesca) contro i tagli di Volkswagen ha segnato un cambio di pagina. Nonostante la condivisa consapevolezza del dramma del settore, le parti sociali hanno scelto la linea muscolare.
Alla tensione di piazza si affiancano le novità che arrivano dalla Cina. A inizio settimana Pechino ha annunciato lo stop immediato all’export verso gli Stati Uniti di componenti chiave per la produzione dei microprocessori. Gallio, germanio, antimonio e materiali superduri sono materie prime strategiche per la twin transition. La mossa è una reazione all’ulteriore stretta Usa (di Biden, attenzione!) alle spedizioni di microchip made in China. Questo porterà a due ripercussioni sull’industria europea: spirale speculativa dei prezzi delle materie prime, in cui il nostro margine di contrattazione è più o meno pari a zero; sovrabbondanza di chip cinesi a casa nostra. Così la dipendenza tecnologica europea dall’Estremo Oriente, invece di calare, aumenta.
Detto questo, chi è il prossimo? A Bruxelles, von der Leyen sembra aprire uno spiraglio per rivedere lo stop al termico entro il 2035. Ma Ribera non intende retrocedere. È il preludio già di una battaglia interna alla Commissione? Ce ne occuperemo quando sarà il momento. Per il momento è più urgente capire quale sarà la prossima filiera industriale a godere – si fa per dire – degli onori della cronaca per le difficoltà che dovrà incontrare. E soprattutto fin dove si potrà spingere l’Europa prima di poter dire che ormai il danno è fatto e che la deindustrializzazione è una triste realtà. Senza fare le Cassandre, si possono intuire i mali che devono essere risolti immediatamente. Dalla prospettiva delle imprese italiane, il divario di prezzo dell’energia è un punto dirimente. Confindustria calcola che si tratta del 30% in più rispetto a quello francese, 15% sulla Germania, 25% rispetto a quello spagnolo. Il caro-energia, per quanto in calo nell’ultimo mese, è un freno alla competitività, come da tempo denunciano le fonderie. Fabio Zanardi, Presidente di Assofond – la relativa associazione rientrante nel sistema Confindustria – osserva che i cali di produzione e fatturato del terzo trimestre 2024 (in alcuni casi vicini o superiori al -30%) sono un «qualcosa che non si vedeva dalla crisi del 2008-2009». Uno scenario che dovrebbe mettere in allarme le istituzioni «per seguire la via indicata dal “Rapporto Draghi”: incrementare la competitività e la produttività europea attraverso grandi investimenti. Viceversa, non potremo che assistere alla progressiva desertificazione industriale della Ue».
Difficile immaginare che, dopo o in parallelo alle fonderie, il problema non passi alla siderurgia e alla chimica. Non fosse altro perché la prima è già sovraesposta. Anche qui: il dossier Ilva in Italia ci impedisce la visuale su una carenza di materie prime e una transizione ecologica soffocante come mali diffusi in tutta Europa. Per la chimica, a sua volta, l’analisi è facile. Siamo nel settore degli idrocarburi, le cui sorti sono sempre più segnate. «La Commissione Ue deve correggere gli errori commessi da quella precedente», commenta Guido Guidesi, assessore allo Sviluppo economico di Regione Lombardia. Siamo quindi nel cuore del manifatturiero italiano. In uno degli epicentri di tutto il Continente. «Dobbiamo essere in grado di mantenere questo livello di competitività. Al contrario l’iper-regolamentazione e l’omologazione degli obiettivi hanno danneggiato non solo la filiera dell’auto, ma tutta l’industria manifatturiera. Ecco perché attendiamo fiduciosi l’appuntamento dell’11 dicembre prossimo». Il riferimento è alla data di presentazione del position paper con cui il Ppe chiederà di rivedere il 2035 come deadline per lo stop al termico. «Fiduciosi, sì, altrimenti saremo testimoni del più grande suicidio socio-economico della storia d’Europa».
Tuttavia potrebbe avere un senso ragionare in positivo sugli ultimi dati dell’industria tedesca. Ieri l’Ufficio federale di statistica (Destatis) ha rilevato un -1,5% degli ordinativi rispetto al mese precedente. Un calo però che, escludendo gli ordini di grande entità, diventa un +0,1%. Sono infatti macchinari, apparecchiature e – manco a dirlo – automotive a tirare giù il dato. Del resto la stessa voce, presa in esame su base trimestrale, dimostra meno volatilità. I nuovi ordinativi complessivi sono aumentati del 2,7% nel periodo agosto-ottobre 2024 rispetto ai tre mesi precedenti. Guardando gli scioperi in Germania, è un ottimismo tirato per i capelli. Forse un paradosso. D’altra parte, qui si pone un problema morale. È più utile il pessimismo cosmico o un accenno di sole che faccia da incentivo?
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