Eccesso di pop
Povera Cultura, ti abbiamo abbandonato nelle mani di Casalino
Rocco Casalino, che oggi fa simpatia, preso di mira com’è da tutti coloro che fino al giorno prima speravano in un suo messaggio e scodinzolavano in attesa, è stato in ogni caso l’emblema di un’epoca: quella in cui per arrivare a palazzo Chigi vale di più partecipare al Grande Fratello che qualsiasi altro impegno politico. Addio, per sempre, alla scuola delle Frattocchie, quella in cui il partito comunista formava le giovani generazioni. Ma addio anche alla passione, all’impegno di chi, per esempio, venti anni fa esatti andava a Genova sperando in un mondo migliore. Per entrare nel gotha della politica oggi (ma speriamo che questa epoca stia finendo…) serve altro: serve passare dagli studi tv di Cinecittà tentando di non essere eliminato dal pubblico o dagli altri concorrenti.
Non vogliamo certo sputare contro i reality o i talent. Anzi. La diffidenza della sinistra nei confronti dell’immaginario pop è stata un duro fardello, per troppo tempo trascinato, impedendo di capire gusti, attese e quel sogno che poi coincise con la discesa in campo di Silvio Berlusconi. Guy Debord lo aveva capito: la lotta di classe si sarebbe spostata dal materiale all’immaginario. E si doveva stare attenti: occupare, vigilare. Combattere. Appunto, combattere. Invece la sinistra non ha combattuto e ha continuato da una parte a restare fissa sulle proprie posizioni, concedendosi qualche veloce incursione in campo nemico (ogni tanto l’intervista dalla Maria De Filippi “Nazionale” , oppure qualche “comparsata” da Barbara D’Urso), ma senza mai davvero mettere le mani in pasta. Oppure, quando ha provato a scendere in quel territorio oscuro fatto di segni, visioni e consumo, lo ha fatto senza una strategia, un suo progetto, una sua direzione. E si è fatta fagocitare, divorare.
È la scena di un film di Michelangelo Antonioni, Zabriskie Point, dove a esplodere siamo noi, il senso che attribuiamo alle cose. Più che Debord ci aveva visto bene Jean Baudrillard quando pensando allo schermo televisivo immaginava che ci avrebbe cannibalizzato, divorato, resi inutili. Dovevamo colonizzarlo e ci ha distrutti. Molto più dell’uso compulsivo dei social. Oggi siamo ancora a quel punto. La tv ha vinto, la sinistra ancora non sa che pesci pigliare e continua a proporre la stessa diatriba: o è persa nei meandri del Grande Fratello oppure è lì che invoca le periferie: ci siamo dimenticati le periferie, la sinistra ha abbandonato le periferie, la sinistra vive solo al centro, invece la destra sta nelle periferie. Periferie che non conosce, che non frequenta.
Perché se le frequentasse capirebbe quanto ha di nuovo ragione Debord: lì, soprattutto lì, l’immaginario televisivo ha vinto, ha preso il sopravvento senza che nessuno facesse niente. Prima i voti a Berlusconi (il sogno), poi i voti ai Cinque stelle (la rabbia, la gogna mediatica, il bisogno di un nemico da odiare): tutto è passato sul piccolo schermo mentre la sinistra continuava a parlare di periferie senza metterci non tanto i piedi, quanto la testa. Bisognava combattere e per combattere ci voleva una strategia: senza abbandonare il campo, ma proponendo una propria visione, un proprio sogno, un proprio film. Poi le macerie. La cultura considerata un orpello, anzi una colpa: e tutti giù a dare addosso ai radical chic, a chi osava mettere la cultura al primo posto, a chi non urlava. Casalino, suo malgrado, ha rappresentato l’apoteosi di questo modo di concepire la politica e la classe dirigente.
Si è poi aggiunto un elemento determinante: la cultura non pretende sangue caldo e immediato. La cultura richiede tempo, impegno, richiede che si vada a fondo nelle questioni. Invece in questi anni è prevalso un altro sentimento: l’illusione che bastasse aumentare le pene per risolvere qualsiasi problema. C’è delinquenza giovanile: che si fa? Si punta sulla scolarizzazione, sull’ascolto? No, si puniscono i giovani. Le donne vengono uccise dai loro mariti o compagni: che si fa? Si mette in campo un piano nazionale che coinvolga scuole, famiglie e centri antiviolenza puntando a un grande cambiamento culturale e sociale? No, si aumentano le pene per chi uccide. E infatti non smettono di farlo. Qualsiasi tema è stato ridotto a questione penale, derubricato ad anni di carcere, senza aver più un briciolo di speranza nel cambiamento, nella cultura, in un’idea diversa di società.
L’abbraccio mortale del Pd ai Cinque stelle colpisce soprattutto per questo. Perché al di là delle questioni strettamente politiche segna la resa sul piano culturale. Ha ragione da vendere Fausto Bertinotti quando proprio su queste pagine scriveva che il problema dei dem non sono i grillini, ma che il vizio assurdo alberga dentro di loro. E questo vizio ha prima di tutto il volto di una resa culturale. Questa resa non riguarda però solo il Pd, ma tutta l’intellighenzia ancora chiusa nella contrapposizione tra cultura alta e cultura bassa. E alla fine è rimasto poco e niente.
Certo non quel nazionalpopolare teorizzato da Gramsci che niente ha a che fare con la tv spazzatura o con la frequentazione acritica dei social. Quella di Gramsci è l’idea di una cultura che si fa senso comune, ma conservando le sue prerogative che non sono quelle di andare in nomination al Grande fratello.
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