C’è stato un tempo in cui gli intellettuali, cioè quella élite usa a mettere il suo pensiero come carburante per spingere l’umanità intera un po’ più avanti, verso un avvenire di magnifiche sorti e progressive, erano ascoltati. Ragionavano a beneficio del pubblico dai giornali blasonati coi loro interventi in cui tensione etica e sapienza (e talvolta anche poesia, o comunque letteratura) si intrecciavano a beneficio del colto ma anche dell’inclito.

Per esempio: puoi aver amato poco Pasolini regista, o non aver empatizzato con la sua poesia in forma di rosa neorealista, incistata nelle periferie ma non puoi non fermarti per articolare un embrione di pensiero pensato imbattendoti nell’editoriale sulle lucciole, apparso sul Corriere della Sera di cinquant’anni fa per raccontare la fine di un tempo e l’epifania della nuova era che, inquinando le campagne, non contemplava più l’esistenza di un insetto capace di conservare nella sua morfologia il suo destino epico di portatore di luce.

E che dire di Sciascia, della sua scrittura nitida, dell’impegno civile contro la connivenza omertosa con la mafia, la sua opposizione ai “professionisti dell’antimafia”, il suo “Affaire Moro”, il pamphlet coraggioso, un’inchiesta con il ritmo e l’eleganza della narrazione, letteratura pura, che denunciò tutto quel che andava denunciato, restando un documento tragico e lucidissimo del tempo più oscuro della Repubblica.

Ma l’elenco potrebbe continuare: che dire di Eco, con la sua “bustina di Minerva” posata come un colophon, uno stimolo intellettuale imbozzolato in un contenitore grondante di intelligenza e ironia, ogni settimana sull’ultima pagina dell’Espresso, o Alberto Ronchey, raffinato intellettuale troppo presto rimosso dalle letture correnti, che varcò anche le colonne d’Ercole della politica, misurandosi nei due governi della fine della Prima Repubblica, col ministero della Cultura. Potremmo ricordarne altri ancora, ma non cambierebbe il senso della missione che queste persone di pensiero (che metteva in moto l’azione) perseguivano: offrire strumenti di comprensione del mondo e stimoli per modificarlo in meglio. Che la cosa andasse proprio in questo modo era innegabile: un editoriale, un elzeviro, un’inchiesta non solo accendevano un dibattito pubblico di qualità nel paese, ma erano in grado di far cadere ministri, di orientare governi, di predisporre il corpo elettorale ad una presa di posizione referendaria. Insomma: erano elementi costitutivi della pubblica opinione, a cui veniva offerta una chiave interpretativa “politica” per capire la realtà e, dunque, scegliere con consapevolezza.

E allora che fine hanno fatto gli intellettuali?

In parole essenziali: si faceva “democrazia”. E allora che fine hanno fatto gli intellettuali? In quale cielo s’è dispersa quell’anima critica della comunità nazionale che ha avuto in passato la capacità di porsi come bussola per comporre la “visione” a beneficio di una cittadinanza che voleva essere consapevole? È mai possibile che Pasolini e co. abbiano lasciato il posto agli influencer delle piattaforme social e agli istrioni dei talk show mascherati da competenti nei sottopancia che li presentano, ma in realtà concorrenti (minori, quanto a pubblico) dei divetti del web? E quelli che un pensiero ce l’hanno, invece, in quale bunker sono andati a nascondersi?

Certo c’è molto che cospira contro chi pensa: il trionfo dell’ “immediato” a fronte della necessaria prospettiva e della “visione”; la banalizzazione del dibattito pubblico in forma di pensiero piccolo e breve, giusto la misura di un tweet; il tramonto delle culture umanistiche, della speculazione che lubrifica il cervello attraverso letture e approfondimenti piuttosto che con l’azione degli algoritmi: sicuramente un nativo digitale sopravvive meglio in questo clima ma si ferma solo al valore d’uso di ciò che adopera indotto a trascurare i perché; il declino della carta stampata, del pensiero complesso, del valore nobilissimo del dubbio, elemento costitutivo della cultura europea, in favore dello schema si/no, amico/nemico, poggiato su certezze garantite da chi è al potere, altra declinazione tangibile dell’algoritmo; la diffidenza, che una scena pubblica dominata anche in politica da attori inadeguati (talvolta grotteschi, più spesso inquietanti, in molti casi entrambe le cose), nei confronti degli intellettuali dal pensiero troppo lungo.

E dunque il ritorno nella caverna di chi ha cose da dire ma le dice titillando i neuroni stanchi di una comunità che nella sua maggioranza aspira a restare stabilmente nella comfort zone del conformismo più bovino e dunque preferisce non perderci la testa. Con rispetto parlando del pio bove. Forse, però, anche la caverna può essere una zona di conforto: una sveglia, magari seguendo la traccia stoica di Giacomo Leopardi, pessimista sul destino del mondo ma impegnato a provarci comunque, andrebbe recuperata. In fondo che ci sarebbe da perdere?