Donald Trump, questa goffa ma drammatica caricatura di Ciclope planetario incredibilmente eletto presidente della nazione più ricca del mondo, aveva annunciato già la scorsa estate che presto avrebbe annullato il limite massimo di venti giorni imposto da una legge del suo Paese per la detenzione dei piccoli migranti che, da soli o con i genitori, tentano di passare il famigerato confine dal Messico agli Stati Uniti. Detto fatto. Un report dell’Onu, stilato con tutti crismi dal professor Manfred Nowak lo ha appena confermato: in questo momento, in palese violazione del diritto internazionale, in barba alla sempre più vana e non rispettata Convenzione sui Diritti dei Bambini, sono 103.000 i minori non accompagnati, impietosamente separati dai genitori, che restano a marcire nelle galere americane. I giuristi definiscono questo periodo “stato di custodia” ma soltanto chi, come il sottoscritto, ha qualche esperienza educativa riguardo alla formazione dei bambini e degli adolescenti sa cosa può significare per loro una segregazione di tale portata.

È la fine traumatica del sogno infantile: veleno dentro il pozzo della coscienza collettiva, se è vero, come gli psicologi dell’età evolutiva hanno dimostrato, che le crudeltà inferte alle personalità ancora acerbe, specialmente quelle più fragili e insicure, sono destinate a trasformarsi nel tempo in tragici boomerang pronti a tornare indietro verso chi li ha lanciati, come fatali rendiconti. A me lo insegnò un ragazzo rumeno che aveva visto i draghi dell’abbandono ed era sopravvisssuto, quando mi disse: «Professore, se fai del bene a qualcuno, prima o poi lo riceverai anche tu, non direttamente dalla persona che ne ha beneficiato, bensì da un altro da cui magari nemmeno te lo aspettavi». Si fermò un attimo per gustarsi la mia sorpresa, sinceramente da lui, spesso distratto e poco concentrato, non me lo sarei mai immaginato; poi, dall’alto della sua precoce esperienza di orfano, aggiunse: «Vale ancora di più se fai del male. Stai sicuro che questo ti ritornerà raddoppiato da un luogo imprevisto e non sarà per niente facile accettarlo per te e per chi ti starà vicino». Se andiamo a rivangare nella storia personale dei terroristi, o più semplicemente nel passato degli individui disadattati, sempre sul punto di compiere reati, inevitabilmente scopriamo un vecchio sopruso, l’ingiustizia patita, il groviglio non sciolto. È la sindrome di Lee Harvey Oswald, l’assassino di John Fitzgerald Kennedy, sul quale Don DeLillo scrisse Libra (1988), uno dei suoi romanzi più belli; oppure di Sirhan Bishara Sirhan, il criminale giordano di origine palestinese che pose fine alla vita di Bob Kennedy, fratello minore del Presidente.

Scandalizzare i più piccoli, lo spiega in modo inequivocabile il passo evangelico (Matteo, 18.6), è come gettare del napalm sulle generazioni future, distruggere i ponti di collegamento fra i pensieri e le azioni di chi diventerà adulto, fare terra bruciata intorno a se stessi.  Poi c’è qualcosa di più. Quei bambini messicani oggi reclusi nelle prigioni statunitensi perché hanno cercato di sfuggire alla povertà, alla miseria, all’indigenza, non sono soltanto una dinamite sociale. L’oltraggio che stanno subendo chiama in causa tutti noi, in quanto loro incarnano il principio d’umanità violato: avete presente l’alba del pianeta Terra?  Ecco, i mezzi lazarilli dagli occhi pesti, incarcerati così, chicos dietro alle sbarre, impediscono che sorga. Bloccano la Grande Ruota. Se è vero, come scrisse Kant, che in guerra bisogna evitare i gesti tali da rendere impossibile ogni futura riconciliazione, noi dovremmo avere il coraggio di credere che per garantire la pace è necessario stabilirne le condizioni: se queste non vengono rispettate nei consessi planetari, dovremmo alzare la voce. Spingere chi dice di rappresentarci, come italiani ed europei, a prendere posizione. Altrimenti, se la politica continua a essere un semplice siparietto televisivo, i Trump avranno sempre la meglio.

Eraldo Affinati

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