La concomitanza di due fatti apparentemente sconnessi – la visita in Ungheria di Benjamin Netanyahu e la decisione israeliana di abolire i dazi all’entrata per una quantità di produzioni statunitensi – spiega in modo molto efficace come si sta muovendo lo Stato ebraico, in faccia al mondo che protesta reclamandone l’isolamento. Destinatario di una richiesta d’arresto della Corte penale internazionale, il primo ministro d’Israele si sarebbe risparmiato un’altra quota di esecrazione se avesse scelto di andarsene in Irlanda o in Norvegia, l’una e l’altra pronte a mettergli le manette.

Incomprensibilmente, invece, il “criminale” ha fatto visita a Viktor Orbán, che non solo non l’ha arrestato, ma ha annunciato l’uscita ungherese dal gruppo degli Stati aderenti al circuito di quella giurisdizione. È stato sufficiente perché sul conto delle responsabilità israeliane fosse caricata la colpa ulteriore di intrattenere rapporti con la pecora nera dell’Europa e su quello delle responsabilità ungheresi, il crimine di tenere bordone al genocida, oltretutto sottraendosi al milieu della democrazia giudiziaria internazionale. Una rappresentazione provinciale e girotondina, non a caso inscenata da chi ritenne di non spendere almeno una parola di perplessità su quegli ordini di arresto: i quali non solo accomunavano due leader di un Paese democratico ai capi del terrorismo palestinese, ma si basavano su allegazioni sfrontatamente false. E così, scambiata per un centro di orientamento oracolare, la Corte dell’Aia, che aveva emesso quei mandati di cattura, sfuggiva alle attenzioni degli eserciti del garantismo, abitualmente occhiuti sulla giustizia spiccia e orientata, di modo che il dovere di non contestarne l’autorità si trasformava nell’obbligo di omaggiarne gli spropositi.

Ma il fatto che, in Europa, sia il mezzo autocrate Orbán a prenderne le distanze è un problema per gli altri, vale a dire tutti quelli che sulla scorta di ben altra presentabilità avrebbero potuto e dovuto dire qualcosa di quel processo scandaloso. Dovrebbe costituire un problema non il fatto che Benjamin Netanyahu sia libero di andare in Ungheria, ma il fatto che non possa farlo nel resto d’Europa. Vale a dire nel continente che fu della Shoah e che, ottant’anni dopo, ha assistito – quando non l’ha promossa – a una generale politica di ostracismo e boicottaggio neppure soltanto di Israele, ma di qualsiasi cosa che sentisse d’israeliano, cioè a dire: imprese, associazioni, docenti, intellettuali gravati dalla colpa di appartenere a una realtà maledetta. Che tutto questo sia rivestito di giustificazione e rispettabilità giuridica aggrava, anziché attenuare, il carattere discriminatorio dell’andazzo ormai imperante da tempo, vale a dire da quando un signore dell’Onu ha ritenuto di spiegare che i fatti del 7 ottobre non venivano dal nulla. E non capire che l’opposizione a quel corso delle cose, da parte di chi ne sia vittima, ben può passare anche da una visita in un Paese governato in modo deprecabile dal punto di vista di quelli circostanti, ebbene significa semplicemente non capire nulla. Vale lo stesso discorso per le concessioni che Israele sta facendo agli Stati Uniti.

I rapporti dello Stato ebraico con l’amministrazione di Donald Trump dovrebbero essere giudicati senza rinunciare a comprendere quanto fossero compromessi quelli con l’amministrazione precedente. Esemplarmente: la critica ai presunti piani di Trump sul futuro di Gaza sarebbe più ascoltabile se non venisse da quelli cui piaceva molto il Joe Biden che, istigato a non aiutare Israele, non si limitava a lesinare le bombe più potenti, ma perfino i bulldozer con le necessarie protezioni per gli operatori. E così, se Israele rimuove i dazi doganali per l’entrata dei manufatti americani mentre Bibi va in Ungheria, ben si può denunciare il perfezionamento dell’asse del male che da Gerusalemme a Washington – passando per Budapest, per la delegittimazione della giustizia umanitaria e per il mercimonio sulla pulizia etnica – attenta all’equilibrio democratico del mondo e sbriglia definitivamente le ambizioni sopraffattorie israeliane. Ma è un comizio, non un’analisi appena seria.