Erano gli anni belli del blues che soffiava sul Vesuvio e dei napoletani che suonavano americani. Tenevano il mare e il groove e lo trafficavano parecchio oltre il Garigliano. Fino a Milano. Fino alle 100mila persone del San Siro esaurito per Bob Marley. Un esodo da tutta Italia. Era il 27 giugno del 1980. Sui cartelloni, tra gli apripista, c’era scritto Pino Daniele. Ma sul palco c’era un dream team con James Senese che del neapolitan power – di quella canzone partenopea farcita di blues e scat e jazz fusion – era stato profeta e simbolo. In un concetto: o’Jammo base, che nella parlesia dei musicisti indicava il capostipite della mescolanza tra la cultura napoletana e quella afro-americana.

Eravamo come un satellite – ricorda Senese al Riformista – Qualcosa che non si poteva toccare, irraggiungibile. Vedevamo la nostra realtà e la raccontavamo: dedicavamo tutti noi stessi alle nostre idee, al nostro cuore. Veniva tutto fuori da lì”. Jmsiè – Gaetano di nascita – era nato a Miano, figlio di un militare americano. Figlio della Seconda Guerra Mondiale. Da piccolo si era difeso da insulti e discriminazioni per la sua pelle nera. Da ragazzo si era innamorato di un 78 giri di John Coltrane e aveva chiesto alla madre di comprargli un sax a via San Sebastiano. Il resto, come si dice, tra Showmen e Napoli Centrale, è storia – l’ha raccontata nell’autobiografia scritta da Carmine Aymone Je sto’cca (Guida Editore, 2005).

In quell’estate di 40 anni fa il tour era quello di Nero a metà, l’album considerato da molti il capolavoro di Daniele, dedicato a un altro Jammo: Mario Musella, cantante degli Showmen e figlio della guerra pure lui. Quando arrivò a San Siro la band viaggiava e suonava in stato di grazia. “Eravamo come una famiglia, un tutt’uno, un corpo solo, io Pino e gli altri. Tutto passa ma quello era un momento di magia”. A Milano l’aria era torrida, un cofano di gente, a chiovere sulla folla era l’acqua sparata dagli idranti. “Fu un concerto stupendo. A volte non ti aspetti quel tipo di pubblico. È stato eclatante, come poi fu a Piazza del Plebiscito”. Un anno dopo, raccontarono i cronisti, c’erano 200mila persone a Napoli. “Quando ci sei non ti rendi conto ma a pensarci, anche esteticamente, fu tutto perfetto. Un sogno”.


Circolano voci, forse leggende, sulla carovana di Bob Marley quell’estate in Italia. “Fu come incontrare dei fratelli già visti. Era quello che succedeva quando si incrociavano degli artisti, dei musicisti creativi e genuini come noi. Viaggiavamo tutti sulle stesse frequenze quindi non vedevamo il mito come lo poteva vedere lo spettatore. L’impressione era come se avessimo lo stesso scopo”. Quale? “Bob Marley non suonava soltanto, difendeva il suo popolo. Come noi. Ma noi eravamo in un certo senso più puliti. Lì aleggiava un sacco di erba, cosa che io non ho mai condiviso. Noi, da figli del popolo, ci preoccupavamo di far tremare il cuore”.

Per Lorenzo Jovanotti “Pino Daniele è per Napoli quello che Bob Marley è per la Jamaica” perché “Napoli si riconosceva in Pino Daniele, l’artista che aveva saputo valorizzarla non attraverso le sue maschere ma partendo dalla realtà e dalla poesia, l’uomo che l’aveva liberata dagli stereotipi, che l’aveva portata nella modernità senza perderci in cultura e in umanità”. Ma per Senese “la nostra evoluzione fu molto più forte. Oltre ad avere alle spalle una tradizione importante eravamo più etnici ed eclettici. Girammo il mondo in musica. Se vogliamo spingemmo ancora più avanti la nostra cultura”.

Qualche parolina con il re del reggae la scambiarono, nelle quinte appannate dal fumo, ma nessuno parlava americano, rivela Senese. Suonavano americano, invece. “Pino l’ho scoperto io. Venne a casa mia dicendomi che i Napoli Centrale lo facevano impazzire e che voleva suonare con noi. L’ho trovato molto simpatico dall’inizio e lo capii perché con i NC avevamo già fatto la rivoluzione”. A orecchio aveva capito che c’era qualcosa in quel ragazzo del centro storico che chiamavano Pinotto. “Mi sembrava un iceberg – dice – Ho visto subito che dietro aveva un’identità e delle cose da dire molto forti. Anche quando parlava si capiva che aveva da comunicare qualcosa di grande. Ci intendemmo subito”.

Senese è tornato, dopo l’emergenza covid, a suonare dal vivo. Ad Apice, nel beneventano. E confessa: “Altrimenti qua si muore. E non per un fatto economico: è un fatto fisico. Senza musica io morirei. È stata un po’ una liberazione. Per un po’ non abbiamo pensato a questo fetente di virus”. Sta preparando il disco nuovo. L’uscita è prevista l’anno prossimo. L’ultimo album di inediti, O’Sanghe, del 2016, ha vinto la targa Tenco al miglior lavoro in dialetto. Resta quel che resta, ma la smania di suonare è la stessa di 40 anni fa. Tempi belli di una volta.

Antonio Lamorte

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