Gli autori si cimentano con racconti inediti
Raccontare/Evolvere: a Civitavecchia l’evento con i protagonisti del Premio Strega
Per l’occasione è stato chiesto a quattro scrittori che hanno vinto il Premio Strega o sono stati tra i finalisti negli ultimi anni di raccontare come, descrivendo vicende personali o collettive, una parola si trasformi in un’altra
Mercoledì 12 luglio a Civitavecchia si è parlato di trasformazione. L’iniziativa è stata di Tirreno Power, che trasforma le energie naturali in energia elettrica, nell’ambito degli eventi organizzati nel ventesimo anniversario di attività dell’azienda, presente in particolare in Liguria, Lazio e Campania.
Per l’occasione è stato chiesto a quattro scrittori che hanno vinto il Premio Strega o sono stati tra i finalisti negli ultimi anni di raccontare come, descrivendo vicende personali o collettive, una parola si trasformi in un’altra: perché, come scrisse Daniel Pennac, “la vita, anche quando non cambia mai, cambia continuamente”.
Teresa Ciabatti, giunta seconda nell’edizione dello Strega del 2017 con “La più amata”, Mondadori, si cimenta sul binomio Persone/ Identità. Daniele Mencarelli, che si è aggiudicato lo Strega Giovani del 2020 con “Tutto chiede salvezza”, Mondadori, affronta il rapporto Ambiente/Bellezza. A Edoardo Nesi, vincitore nel 2011 con “Storia della mia gente”, Bompiani, è affidato il passaggio Economia/Eredità. Infine, Nadia Terranova, finalista nel 2019 con “Addio fantasmi”, Einaudi Stile Libero, e vincitrice nel 2022 dello Strega Ragazze e Ragazzi con “Il segreto”, Mondadori Ragazzi, si occupa di Territorio/Nostalgia.
Come ha detto il direttore generale di Tirreno Power Fabrizio Allegra presentando l’evento, «le parole dalle quali prendono le mosse le considerazioni dei quattro autori, che sono Persone, Ambiente, Economia e Territorio, sono i pilastri della sostenibilità, quelli che ci guidano nella trasformazione positiva del nostro futuro».
Qui di seguito, i testi presentati da Teresa Ciabatti e Daniele Mencarelli.
Tutti i bambini rapiti che siamo stati – Teresa Ciabatti
“Mi chiamo Antonello Tuvoni, e sono il bambino rapito”. Siamo nel 2007, a parlare è un uomo
tra i trentacinque e i quarant’anni, un senzatetto che gira per Cagliari con carrello della spesa, e cagnolino di nome Silvia. Figlio di Mario Tuvoni, operaio, e di Stefania Lai, casalinga, Antonello ha tre anni quando sparisce da Torpe, Nuoro – 28 agosto 1974.
Lo cercano poliziotti, squadre speciali. “È così piccolo – dice la madre – più piccolo dei suoi tre anni”. Nel 1988 la madre muore di tumore, e di dolore, mai rassegnata alla scomparsa del figlio. Passano
gli anni: dieci, tredici.
Leggendo sul giornale di un ragazzo senza nome dall’età apparente di sedici/diciassette anni, trovato
per strada e ospitato in un istituto religioso, Mario Tuvoni si precipita all’istituto. Lì non ha dubbi: è lui. Dal canto suo il ragazzo conferma: sono io. Racconta di essere stato rapito dagli zingari che gli hanno cambiato il nome in Zoran, lui però dentro è sempre rimasto Antonello – assicura. Una piccola malformazione al piede destro, caratteristica della famiglia materna, è sufficiente affinché il padre sia certo che quello sia il figlio senza ricorrere alle analisi per la compatibilità genetica. Antonello va a vivere col padre e i fratelli. Ma purtroppo il ragazzo ritornato non ha niente del bambino buono, piccolo, piccolissimo che la gente ricordava. “Ubriaco già dal mattino” dicono
in paese. “Sai le galline che sono sparite in quel periodo?”.
Dopo un anno, Mario Tuvoni caccia il ragazzo di casa, e dichiara ai giornali locali di essersi sbagliato,
non è suo figlio (ancora sulla base di sensazioni, nessun accertamento scientifico, stavolta per paura che possa risultare una compatibilità genetica). Tanto un anno prima era convinto che quello fosse
Antonello, quanto ora è sicuro che non lo sia: il suo bambino non era aggressivo, né ladro. Ladro fino alla fine perché andandosene si è portato via l’oro di famiglia. Gli anni successivi Antonello vive per
strada, di elemosina e piccoli furti. Sono i giornalisti de L’Unione Sarda a fare una colletta per il test del DNA. I giornalisti a convincere la zia materna e quella paterna a sottoporsi al test – falliscono col padre che si ostina a non volerne sapere del tizio che si spaccia per suo figlio. La vicenda sta per concludersi sotto lo sguardo dell’Italia intera, poiché nel frattempo Antonello è diventato un caso nazionale: “Sono famoso” dice alle telecamere. “Aspettavo tanto questo momento”
sempre alle telecamere. L’arrivo della busta con la risposta del test è un evento, folla di gente e televisioni ad assistere. Ecco la busta, ecco Antonello commosso. Dall’esame genetico emerge che non esiste nessun vincolo di parentela con la famiglia Lai per via materna e con la famiglia Tuvoni per via paterna, recita il risultato del test, riferito a un Antonello smarrito. Così un giorno, a casa con Silvia che inizia a abbaiare, Zoran/Antonello getta la cagnolina dalla finestra. Se lui non è Antonello, Silvia non è Silvia, ogni cosa perde consistenza. Ma è un istante: corre giù in strada dove tona a essere Antonello Tuvoni, figlio di Mario Tuvoni, operaio, e di Stefania Lai, casalinga, rapito a tre anni da Torpe – Nuoro; il senzatetto, il senza nome, qui si riprende chi è e, in piena coscienza, piange Silvia, il padre, la madre morta giovane, se stesso.
Antonello/Zoran muore nel 2014 a seguito di un’aggressione. In realtà muore prima: il giorno che in diretta televisiva gli comunicano di non essere Antonello Tuvoni. Non è lui il bambino rapito.
E vengo a me: da quando ho partorito tengo di fianco al letto una foto di mia madre con me neonata tra le braccia. Figura che stabilisce una continuità del materno, da mia madre a mia figlia. Una certificazione d’identità, dovessi mai smarrirla. Tranne di recente, col passaggio della foto in digitale, scoprire che il neonato ritratto non sono io bensì mio fratello gemello. Colpa di mia madre che custodisce i ricordi in una scatola. Senza data, né didascalia, scatti di bambini che potrebbero essere chiunque – mia nonna, la mia bisnonna. Eppure: non è forse questa somma di infanzie indistinte a fare l’io? Idee sbagliate, falsi ricordi, suggestioni fasulle, bambini immaginati, tutti i bambini rapiti che siamo stati.
La vera transizione è ricongiungere l’uomo alla sua fame di bellezza – Daniele Mencarelli
L’uomo detesta la sua transitorietà, è un fatto, si ribella da sempre alla sua natura che prevede una dinamica precisa: a vita corrisponde morte. Allo stesso modo, non si concepisce concretamente dentro il gesto della transizione, ovvero nel passaggio in un luogo che esisteva prima di lui e continuerà a esistere dopo di lui. Per l’uomo, l’ambiente è in buona sostanza l’arena dove consumare la propria vita, un’arena da cui attingere risorse e ogni bene possibile con la violenza di chi è legittimato dalla sua stessa natura a finire tutto quello che ha attorno. Con la mia vita, in sintesi, finisce l’esperienza del mondo. L’esplosione dei grandi processi economici non ha fatto altro che accentuare, moltiplicare all’infinito questo sentimento di padronanza nei confronti dell’ambiente. Alla caducità che ci autorizza a sbranare tutto ciò che abbiamo attorno si è sommato il principio secondo il quale il massimo deve essere perseguito sempre e solo attraverso il minimo, l’unico fine è la funzionalità scarnificata da ogni altro valore possibile. Nel corso degli ultimi decenni, tutto il secondo Novecento, è avvenuta la trasformazione ancora in essere. Viviamo in un ambiente a immagine e somiglianza dall’economia. Questo dominio ha fatto perdere all’uomo quella meravigliosa capacità che lo vedeva reagire alla sua condizione apparentemente finita obbedendo alla regola del bello. Attraverso l’imitazione della creatrice per antonomasia: la natura, l’uomo con il suo estro sfidava la sua stessa materia concependo opere capaci di superarlo, opere capaci di invertire il suo rapporto con l’ambiente, ambiente che diventava la sua tavolozza di forme e colori. L’uomo concorreva con la natura alla creazione del bello. E proprio quella bellezza rendeva l’uomo, in un certo senso, intransitivo, permanente. Se è vero che sono fatto per passare da vita a morte, è altrettanto vero che spendere la mia esistenza dentro luoghi che accolgono il mio bisogno del bello riesce a rendere la mia esperienza terrena non solo più prolifica per me, ma trasforma anche il mio rapporto con l’ambiente che mi accoglie. Non più arena da sbranare, ma giardino che accoglierà le generazioni future, che transiteranno esattamente come la mia dentro luoghi capaci di nobilitare l’animo, di rendere la convivenza più piacevole, più consona al bene che sento e che potrò lasciare al futuro dopo di me. Questo quadro generale porta a una conclusione evidente quanto drammatica. Se la transizione ecologica si pone come unico obiettivo il passaggio da risorse non rinnovabili a risorse rinnovabili è destinata a fallire, a diventare l’ennesima parzialissima visione di ciò che è in atto e che chiede, al contrario, di essere cambiato radicalmente. Perché è un’inversione radicale che ci chiede il nostro tempo. Per farla, occorre riesumare, dissotterrare parole che la modernità e la post-modernità hanno logorato, banalizzato, ma che dal sottosuolo premono per tornare a nuova vita. Utopia. Visione. Basta girare per le nostre città, province, per vedere in quale stato è precipitato l’uomo e la sua esistenza. Ripensare ai luoghi, ripensare tutto. La vera transizione è ricongiungere l’uomo alla sua fame di bellezza.
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