Verso la sentenza del processo d'appello bis
Raffaele Lombardo verso la sentenza del processo di appello bis, cosa rischia l’ex governatore siciliano
E se, in fin dei conti, non fosse poi un uomo truce, un corvo, il “don Raffaé” dipinto dai Pm di Catania, ma un Don Chisciotte su un ronzino che si era semplicemente messo in testa di lottare contro le “braccia rotanti” dei mulini a vento da cui era sopravvissuto stremato, esangue? E se più modestamente avessero ragione i procuratori Zuccaro e Patané che, nei suoi confronti, per tre volte chiesero l’archiviazione? Invero, neanche il numero perfetto bastò a salvare Raffaele Lombardo da oltre dieci anni di pene anticipate e di tormenti.
Il 23 marzo del 2012, il gip di Catania trascese infatti il rigore di quelle tre richieste e percorse la strada senza sbocco dell’imputazione coatta. Per corruzione elettorale ma soprattutto per concorso esterno in associazione mafiosa. Per il Gip, cosa nostra catanese usava con disinvoltura il nome di Lombardo, tanto da ritenere necessario il secondo tempo del dibattimento. La storia successiva è presto detta. È emerso che fatti di reato nel procedimento 14311/2011 non ve ne siano, che per la mafia di Catania semmai l’ex presidente della regione siciliana fosse una meteora lontana, irraggiungibile. Ciò che affiora prepotentemente nelle migliaia di intercettazioni setacciate è che l’organizzazione criminale, con la quale Lombardo mai parla, che neanche sfiora, sia stata vilipesa, delusa dal politico. Semmai combattuta nei suoi affari più recenti: la grande partita dell’energia. Di quei “pali da luci”, di quei “mulini a vento”, l’eolico per esempio, del quale finanche Totò Riina discettava, intercettato in carcere, come il grande business dell’imprendibile Matteo Messina Denaro.
È storia politica, non giudiziaria, che sulla lotta nei confronti di quelle pale che deturpano il territorio e dei termovalorizzatori, Lombardo ci abbia lasciato forse la pelle politica. È invece storia del diritto negato un processo, che galoppa verso la conclusione dell’appello bis, ove il protagonista non è il fatto ma il fattoide, la massima di esperienza distorta a seconda delle convenienze, il sospetto, l’impostura. Prendiamo per esempio i presunti favori di Raffaele Lombardo all’impresa Safab S.P.A. e alla mafia etnea in relazione alla realizzazione del villaggio dei militari di Sigonella. A Belpasso, in provincia di Catania, sarebbe dovuta sorgere questa mega struttura: un affare di milioni euro. Al fine di agevolare la Safab, per l’accusa, fu chiesto l’intervento del geologo di Aci Castello, Giovanni Barbagallo, secondo gli inquirenti personaggio legato agli “esponenti di primo piano della criminalità organizzata catanese e, specialmente, con Vincenzo Aiello, reggente provinciale di Cosa Nostra”. È un fatto acclarato, non un fattoide, che il geologo, il quale aveva tentato peraltro una fallimentare carriera politica nel partito di Lombardo, mai riuscì a mettersi in contatto con l’allora Presidente della Regione. È un fatto, non un fattoide, che quel progetto per i militari USA mai abbia incrociato il governatore.
Quando si pensa di mandare in galera, dopo anni di accertamenti, un uomo politico per mafia, si dovrebbe evidentemente partire dall’interrogativo più lapalissiano, banale: esiste un appalto nel quale il sodalizio criminale sia stato favorito? La risposta, rispetto al procedimento 14311/2011, è negativa. È fatto, non fattoide, che la Safab sia stata danneggiata da Lombardo, che bloccò la realizzazione del termovalorizzatore di Bellolampo. Se è stato sbandierato peraltro a tutti i livelli, dal punto di vista generale, che proprio l’energia sia il terreno vitale delle nuove organizzazioni criminali, come si spiega la lotta irriducibile di Lombardo, “amico della mafia”, agli interessi dei suoi “amici”?
Se si mette da parte l’affaire Safab, smontato dai legali Maiello e Licata, il processo Lombardo è in fondo un romanzo dei fattoidi. Tutto ebbe inizio con le parole di Maurizio Avola, killer di oltre ottanta omicidi, dichiarato di recente inattendibile anche dai Pm di Caltanissetta sulla strage di Via D’Amelio (il giorno dell’eccidio era con il braccio rotto a Catania), il quale riportò fatti di trent’anni prima. Lombardo per Avola si sarebbe incontrato con il capo dei capi: Nitto Santapaola. Nel 2007, la stessa Procura di Catania, chiese l’archiviazione per questa narrazione datata e non verificabile, onde poi dimentica ripescarla a seconda delle convenienze. C’è, in questa trama di fattoidi, un mafioso, tale Paolo Mirabile, il quale raccontò di aver incontrato il principe Scammacca, un nobile siciliano, a suo dire proprietario di un maneggio, vestito da cavallerizzo, per chiedergli di intercedere presso il presidente della regione Sicilia per la licenza di una pizzeria. Non solo non c’è traccia dell’incontro ma soprattutto è cosa certa che Scammacca non fosse mai salito su un cavallo in vita sua.
Esiste un soggetto di mafia, D’Aquino, il quale raccontò di aver incontrato un uomo vicino a Lombardo e di avergli chiesto la promozione in una cooperativa sociale. Quell’uomo vicino a Lombardo venne assolto, la promozione non arrivò, ma quelle dichiarazioni assunsero inspiegabilmente rilevanza nel processo a carico dell’ex presidente.
I fratelli Mirabile accusarono l’imputato di aver avuto rapporti con il boss di Caltagirone Ciccio La Rocca: in migliaia di intercettazioni non pronunciarono mai il nome Lombardo. Tale Nizza, capo bastone di un quartiere catanese, affermò di aver votato per un giovane vicino politicamente a Lombardo. Quel giovane sarebbe stato il fratello di Lombardo che ai tempi aveva appena 48 anni. Un altro pezzo dell’organizzazione criminale, di nome Digati, mafioso agrigentino, disse di aver votato il partito di Lombardo sin dal 2000 (quando non esisteva) onde poi affermare con certezza di aver sempre sostenuto forze politiche lontane dal politico di Grammichele.
Lombardo avrebbe incontrato a palazzo d’Orleans il pentito Tuzzolino (condannato per diffamazione aggravata nei confronti di un magistrato e ritenuto di personalità istrionica e inattendibile) ma le telecamere di sorveglianza H24 dell’edificio non lo ripresero mai. Non si trovò mai traccia ancora del presunto summit di Barrafranca a cui fece riferimento il pentito Caruana. Il figlio del boss Di Dio, ipotetico raccomandato di Lombardo per regolare una situazione debitoria in un consorzio di bonifica, non venne neanche ricevuto dai dipendenti del consorzio. Il pentito La Causa disse che la mafia avrebbe votato per Lombardo ma ciò non venne mai provato in alcun modo. Invero, questo processo siciliano è il passato remoto dei fatti che non sono fatti: i fattoidi. Il fatto ha diritto di esistere nel processo penale, il fattoide è pettegolezzo. Se incrocia il processo penale, involve drammaticamente in quello che Foucault definiva, in “sorvegliare e punire”, “lo splendore dei supplizi”. È il supplizio di vedere la vita di un uomo degradata al rango di storia criminale sulla base di una “massima d’esperienza”, partorita nella mente di chi accusa che un imputato sia irrimediabilmente ammantato dal male. Non bastano le fanfare, i pennacchi di sciasciana memoria: il supplizio è tale e tale resta.
Non si dovrebbe inquisire e condannare sulla base dei “fattoidi” e del “dicunt” dei collaboratori che in quella trama di fattoidi a volte muovono sospinti da una umana presunzione utilitaristica. Rimangono attuali le parole che Alfonso Giordano, l’uomo che ebbe il coraggio di presiedere il maxi processo di Palermo, chiosava spesso: «Sui collaboratori di giustizia dobbiamo stare molto attenti. I depistaggi esistono sempre. Chiedo ai colleghi di mettere il massimo dell’attenzione sull’attendibilità di chi collabora, perché le finalità della collaborazione sono spesso diverse da quelle che noi immaginiamo». Sembrano scritte quelle parole per processi come questi. Quando fattoidi e tipi d’autore non entreranno nell’agone giuridico, ritornerà lo stato di diritto. E se Lombardo fosse un don Chisciotte che sfidò la furia dei “pali da luci”, dei mulini a vento? Una follia quella di immaginare di sfidare i signori del vento senza rovinare a terra.
Pensare come Don Chisciotte di puntare la propria lancia contro i giganti dalle enormi braccia e calcolare di ucciderli, è a suo modo eroico. Un atto puro che rischia però di divenire vano. Invece di ammutolire e tremare di paura come avrebbe fatto Sancho Pansa, di fronte ai terribili “mulini a vento” che si stagliano all’orizzonte, sprigionano l’economia e ingabbiano il paesaggio, Lombardo ha osato alzare la voce e attaccare a viso aperto come un ingenuo e valoroso cavaliere della Mancha. La sua nobile politica lancia in resta contro le mostruose pale rotanti non ha risolto il problema. Si è risolta in un volgare guaio giudiziario. Forse Lombardo come un don Chisciotte lottò contro i “pali da luci”, i “mulini a vento”, impattando contro le loro “braccia rotanti”. Forse. Quel che è certo è che da questa vicenda processuale non emerge il fatto, non esce rafforzato il prestigio dell’organizzazione criminale grazie all’imputato, come denuncia l’accusa. Quel che emerge è l’esaltazione, l’esultanza, il big bang dei “fattoidi”.
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