Il 6 settembre 1982
Reato di associazione mafiosa, fa 40 anni fa la legge che ha prodotto indagini zoppicanti
Sono trascorsi 40 anni da quando, il 6 settembre 1982, il reato di associazione mafiosa ha trovato ingresso nel codice penale italiano e, con esso, si è prevista la possibilità della confisca per i patrimoni dei sospettati di far parte delle organizzazioni mafiose. Erano trascorsi solo tre giorni dall’uccisione del prefetto Dalla Chiesa a Palermo e la reazione della pubblica opinione rendeva indifferibile dar corso alla proposta di legge Rognoni – La Torre in gestazione da qualche tempo in Parlamento; il governo adottò un decreto legge in fretta e furia. L’Italia è stata, e resta, l’unico paese al mondo che ha previsto uno specifico reato associativo per una determinata tipologia di realtà criminali (la mafia, la camorra e dal 2010 la ndrangheta).
Nel tempo il 416-bis ha manifestato una eccezionale capacità espansiva nelle maglie dell’ordinamento italiano. Si sono modificate altre norme del codice, si sono inserite specifiche aggravanti, si sono modellate norme processuali ad hoc (il cosiddetto doppio binario), si sono previsti regimi penitenziari speciali, si sono costruite apposite agenzie investigative, si sono modificate le competenze delle procure della Repubblica e finanche dei giudici con l’accentramento in sede distrettuale dell’intera fase delle indagini e la costituzione dell’unica procura nazionale. Protocolli e congegni che hanno mostrato una straordinaria capacità performante e sono stati talmente efficaci da attrarre in questo perimetro d’eccezione altri reati (per tutti il terrorismo). Oggi l’Italia può dirsi, con ogni probabilità, l’unico paese al mondo che dispone di uno statuto speciale per la mafia che spazia in ogni settore dal processo alle pene, dalle intercettazioni al regime carcerario, dalle carriere dei magistrati ai rapporti con la stampa, dalla prescrizione alla carcerazione preventiva, dagli appalti alle candidature ivi incluso lo scioglimento dei consigli elettivi locali.
Una gigantesca macchina intorno alla quale si sono agglutinati interessi politici, ambizioni carrieristiche, operazioni mediatiche di successo, esasperate polemiche, processi di grande importanza, ma anche indagini zoppicanti quando non naufragate. Dozzine di libri e migliaia di pubblicazioni hanno scandagliato in tutti i versanti questo composito e variegato mondo. Talvolta esaltandone l’efficacia, talaltra rimproverando errori ed eccessi. Basti pensare che si attende ancora un nuovo assetto che modifichi il cosiddetto ergastolo ostativo e che il governo Draghi ha dovuto rapidamente, a fine del 2021, mitigare le norme sulle interdittive antimafia per non paralizzare i cantieri del Pnrr. In 40 anni il paese è profondamente modificato e sarebbe insensato immaginare che le mafie siano rimaste quelle dei tempi dell’eccidio del generale Dalla Chiesa. Dire cosa siano oggi è, in realtà, un’operazione non agevole. Circolano stereotipi, si propagandano ipotesi fumose e suggestive, si lanciano moniti, si denunciano “cali di tensione”, si giustificano candidature con l’esigenza di dar voce al mondo composito e complesso che si è compattato – non senza un tornaconto personale – intorno alla lotta alle mafie in questi decenni.
Certo sorprende che dopo 40 anni di applicazione della norma nessuno sia disponibile a rendere un bilancio realistico sulla effettiva condizione di quelle realtà criminali; quanto meno per dire al paese se l’enorme sacrificio delle libertà personali che quella legislazione quotidianamente comporta, se gli enormi costi che vi sono associati (si pensi solo alle intercettazioni) e i gravi danni collaterali che ha prodotto abbiano comunque dato un risultato apprezzabile. Alla ricorrenza del 3 settembre solo Nando Dalla Chiesa ha, con grande onestà intellettuale, riconosciuto la distanza abissale che separa il 1982 dal 2022. Eppure è sotto gli occhi di tutti l’incommensurabile deserto che lo Stato e la società italiana nel suo insieme hanno attraversato da quel 1982 e, soprattutto, dopo il 1992 e le stragi di Falcone e Borsellino. E’ vero le organizzazioni mafiose sembrano ancora possenti; difficile dire quanto effettivamente capaci di condizionare la vita pubblica della nazione, ma certo ancora radicate nei territori. Può darsi che siano diventate la Spectre, ma insomma le analisi e le denunce sul punto hanno lo stesso gradiente di conferme che si può trovare in un libro di Ian Fleming. Il nemico appare sconosciuto, se ne sono persi i contorni e l’identità.
Da tempo ormai non sembra più “agganciato” investigativamente; alle prove si sono sostituite le denunce e gli allarmi. Soprattutto chi avrebbe il dovere di individuarne le nuove morfologie e le nuove strutture, si abbandona a cogitazioni probabilistiche e a mere deduzioni sui massimi sistemi senza mai addurre una conferma obiettiva. Borse, industrie, apparati finanziari, mercati, istituzioni vengono additati come infiltrati e condizionati, ma mancano prove certe di tutto ciò. Al massimo si invoca qualche raro e marginale episodio, qualche brandello di intercettazione rimasto privo di conferme nei processi, per giunta. E’ una questione grave. La scelta del 1982 era stata lungimirante, profetica, micidiale per i clan.
Dopo 40 anni ci sono in questo paese più commemorazioni che processi, più libri e convegni che indagini. La nazione dopo tanti morti e tanti sacrifici ha diritto di pretendere report attendibili, stime realistiche, valutazioni ponderate. Anche perché il paese è devastato da reati ben più evidenti e parimenti gravi – corruzione ed evasione fiscale per primi – che rischiano di metterlo in ginocchio in questi tempi oscuri. Leggi speciali e connessi apparati speciali, come quelli italiani, non hanno quartiere in nessuna democrazia. Sono un costo cui ci siamo rassegnati 40 anni or sono per colpa della ferocia mafiosa, ma non sono una cambiale in bianco rilasciata in favore di qualcuno.
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