L’ennesima notizia su un pubblico amministratore arriva da Palermo, dove il gip ha prosciolto con la formula più ampia il sindaco di Castellamare del Golfo, Nicolò Rizzo, indagato da un anno e mezzo nell’ambito di un’operazione definita “Cutrara” per “favoreggiamento aggravato dal fatto di aver agevolato Cosa Nostra”. Un classico, che pare ricalcare quel che accade ogni giorno in Calabria, con l’uso a piene mani, anche per la contestazione di un abuso d’ufficio, dell’aggravante mafiosa. Il che serve alla polizia giudiziaria e al pm per poter arrestare e intercettare, ma anche a sancire sempre di più, giorno dopo giorno, che nelle regioni del sud tutto è mafia. E soprattutto per dimostrare che ormai la mafia è quella dei “colletti bianchi”.

Nella stessa giornata in cui abbiamo appreso la notizia di Palermo, è stata resa nota la relazione della Direzione Investigativa Antimafia (Dia) al Parlamento relativa al secondo semestre del 2020. Lo schema riflette una certa miopia, troppo spesso voluta, nell’esaminare le evoluzioni e i cambiamenti delle mafie, a partire da quel 1982 in cui, dopo l’assassinio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, fu introdotta nella legge Rognoni-La Torre la fattispecie dell’articolo 416 bis del codice penale, l’associazione mafiosa. Ci si deve domandare, prima di tutto, se quella formulazione oggi sia ancora attuale. Probabilmente in gran parte non lo è, a partire dalla Sicilia, la regione che più di ogni altra ha sofferto fino agli anni novanta la guerra tra cosche e l’assalto allo Stato con le armi e il tritolo.
«L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti…».

Nelle parti successive al comma 3 dell’articolo 416 bis il legislatore si sofferma a lungo sul concetto di associazione mafiosa armata. Non per caso. Il possesso e l’uso delle armi sono sempre stati fondamentali ai boss per assoggettare e per controllare il territorio. Oggi la relazione della Dia, e non è una novità, ci dice che «la violenza delle mafie è ormai residuale, la strategia è infiltrare l’economia. Riciclano al nord, puntano i fondi pubblici nel meridione». I dati sono molto chiari, gli omicidi, i ferimenti, le faide di sangue sono quasi del tutto terminati. E questa è una buona notizia. Più preoccupante è il fatto che gli investigatori dell’antimafia non riescano a staccarsi dalla nostalgia di un proprio ruolo necessariamente diverso quando fischiavano le pallottole. Che senso ha infatti, invece di gioire, di farsi vanto anche, per questo radicale cambiamento della società meridionale, voler leggere la nuova situazione come «processo di trasformazione e sommersione, senza rinunciare alla pressione intimidatoria che garantisce il potere criminale»?

Il fatto che nel mondo del narcotraffico o del mercato “sporco” dei traffici sui rifiuti o sul movimento terra ricorrano anche nomi di famiglie conosciute come appartenenti ad antiche storie di mafia, non qualifica necessariamente questi reati come “mafiosi”. E non tutti coloro che commettono questo tipo di reati devono per forza appartenere alle cosche. Questo non significa che non esiste più la mafia, ma semplicemente che non tutto è mafia. Che storicamente gli uomini della ‘ndrangheta siano impegnati nel traffico internazionale degli stupefacenti, e in particolare in collaborazione con i sudamericani, è cosa piuttosto nota. Ma la loro attività illegale è costruita ancora, come fu un tempo, sulla forza intimidatrice e la capacità di ottenere omertà tramite la forza di assoggettare, o non è semplicemente fabbrica di soldi?

Non è una domanda da poco. Perché, se è vero, come dice la relazione della Dia, che questa attività si concretizza al Nord mediante il riciclaggio, al sud l’infiltrazione avviene nel settore pubblico e dei pubblici finanziamenti. E qui entrano in gioco le maxi-inchieste e i maxi-processi che paiono troppo spesso finalizzati a incastrare questo o quel politico, questo o quell’amministratore locale. Sempre tenendo in tasca la carta dell’aggravante mafiosa o del concorso esterno. Colpisce nella relazione della Dia che, nei dati, non si parli solo della diminuzione degli omicidi, ma anche dell’aumento delle «induzioni indebite a dare o promettere utilità», piuttosto che dei «traffici d’influenze» e delle turbative d’asta. I tipici reati dei “colletti bianchi”. Equiparati, persino nelle tabelle di dati statistici, ai reati di mafia. Se l’articolo 416 bis del codice penale racconta ormai più di una sorta di “mafia percepita” che reale, forse è ora di procedere a una revisione del tipo di reato. Anche se non piacerà a Nicola Gratteri, cui comunque va la nostra solidarietà per le minacce ricevute.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.