Per questa seconda puntata del racconto sommario dei rapporti fra Stato e mafia sono andato ad attingere da un mio antico file nutrito per oltre quaranta anni con troppi eventi e nomi per poter essere usato. Ma ne escono le questioni fondamentali dello sviluppo del rapporto fra Stato, Mafia, intermediari, professionisti e sedicenti tali dell’antimafia. Per tornare di nuovo a Sciascia: c’è una storia che nasce con il dopoguerra e una seconda parte che comincia negli anni Ottanta e che vede l’astro Falcone illuminarsi progressivamente e per molti minacciosamente.

Oggi si parla di Cosa Nostra come se fosse una squadra, un brand, un marchio di fabbrica, ma è falso. Fa parte della vulgata ideologizzata. Ma provate a immaginare: ci fu un’epoca, quella degli anni Settanta e Ottanta e che arriva fino alla fine della guerra fredda, quando scoppiò Tangentopoli con l’inchiesta Mani Pulite, in cui erano attori di primo piano le varie mafie fra cui i Corleonesi con il loro ruolo di comando, i guerriglieri di dubbia e molteplice origine sia rossa (Brigate rosse, Prima Linea) e nere (Nar e altre sigle), correnti fra loro diverse e opposte negli organi dello Stato, specialmente nei servizi segreti perennemente divisi fra un’ala filo araba e una filo israeliana e americana, ma con pesanti e continue interferenze dei servizi dell’Unione Sovietica che nel 1981 tentarono, senza riuscirci, di eliminare il papa polacco che con il suo seguito sindacale e politico occupava materialmente il territorio polacco, rendendolo inoperabile per fini militari.

Cominciò la stagione delle Commissioni antimafia sia regionali che del Parlamento repubblicano in cui tale commissione diventa istituzionale, ovvero diventa una branca del Palamento con tutto il suo apparato, gli accordi e disaccordi sulle presidenze e il mestiere di membro o presidente dell’antimafia diventa la professione che Leonardo Sciascia violentemente contestava, sicuro che nessuno dei politici italiani capisse nulla di mafia e usasse la mafia e l’antimafia solo per fare carriera e occupare spazi politici. I delitti accadevano a una velocità che abbiamo dimenticato: circa ottanta all’anno, qualche anno più pescoso anche di più. Era la normalità della mafia e dell’antimafia. Sono poi andato a sfogliare dei miei volumoni di fotocopie degli originali interrogatori condotti da Falcone, quando mise sotto torchio Tommaso Buscetta che fu il primo e vero testimone di giustizia che vuotò il sacco. Il giudice lo interrogò sempre da solo, senza cancelliere, e metteva a verbale con la penna stilografica le domande e le risposte.

Questo Tommaso Buscetta è un uomo chiave su cui sono stati fatti film e libri. Ma era un testimone di Giustizia (in Italia e soltanto in Italia si dice “pentito”) che volente o nolente vuotò tutto il sacco, e quando cercava di mettere nel sacco Falcone, quello lo ri-arrestava. Un altro tutore esegeta di Buscetta fu Enzo Biagi che ebbe con lui una famosa intervista in cui, ad esempio, Buscetta spiegava mentalità e uso del potere di Salvo Lima che poi diventò il referente di Giulio Andreotti, per cui quando Lima fu ammazzato, Andreotti capì che la sua corsa verso il Quirinale era finita, anche se seguitò a sperarci. Nei primi anni Sessanta il futuro onorevole Lima fu sindaco di Palermo. Buscetta raccontò poi a Biagi: «Lui personalmente non mi ha fatto dei favori perché io avevo anche i miei dentro il municipio di Palermo, che erano di Cosa nostra. Addirittura, uno era il consigliere della mia famiglia che si chiamava Giuseppe Trapano, consigliere della famiglia e consigliere municipale».

Prima di quei due anni da sindaco, Lima aveva assistito come membro della Democrazia Cristiana all’ascesa dei Corleonesi al potere, cominciata con l’assassinio del boss (e noto medico chirurgo) Michele Navarra, quando gli uomini in armi erano Totò Riina, Bernardo Provenzano e Luciano Liggio. Disse Buscetta che le riunioni nella Commissione erano tempestose perché il capo dei palermitani, Salvatore La Barbera si trovava in contrasto con i provinciali Corleonesi e accadde che un membro della famiglia di Porta Nuova, tal Anselmo Rosario, si era innamorato della sorella di un uomo d’onore, Raffaele Spina, di un’altra famiglia, quella di Noce. Raffaele Spina pose il veto sul matrimonio per motivi sociali. I compari di Anselmo Rosario, fra cui Tommaso Buscetta, consigliarono all’amico di rapire la donna amata e chiudere la faccenda con un fatto compiuto. Il rapimento avvenne e le conseguenze furono quelle previste: Raffaele Spina inghiottì il boccone, ma giurò vendetta e di far fuori l’odiato rapitore della sorella. Ma le regole di famiglia vietavano qualsiasi atto che andasse contro i legami di sangue e Salvatore La Barbera si oppose alla richiesta, cosa che aumentò ancora di più la tensione fra palermitani e provinciali.

La tensione arrivò a tal punto che Calcedonio Di Pisa fu assassinato a Palermo il 26 dicembre 1962, poco prima che la proposta di legge del Senatore Ferruccio Parri – il primo capo del governo repubblicano alla fine della guerra, di istituire una Commissione permanente d’Inchiesta sulla mafia, fosse messa nel calendario dei lavori parlamentari.
Intanto era morto a Napoli Lucky Luciano per un infarto, mentre stava discutendo un film sulla propria vita con un produttore americano e per i suoi funerali si era spostato da Milano Joe Adonis, antico compagno di gangsterismo negli Stati Uniti. Luciano non era mai stato regolarizzato come cittadino americano essendo entrato da bambino come clandestino e dunque era stato espulso e spedito a Napoli. Adonis aveva deposto una corona con la scritta “Goodbye, Old pal”. Nel 1962 anche l’Assemblea regionale siciliana vota all’unanimità una mozione per la Commissione parlamentare d’inchiesta antimafia. Finalmente il 20 ottobre 1962 la Camera approva la legge che istituisce la Commissione antimafia con il compito anche di “proporre le misure necessarie per reprimere le manifestazioni ed eliminarne le cause”.

Intanto la mafia si è convertita dal settore agricolo all’edilizia, badando alle amministrazioni, agli appalti, e quindi alla politica del denaro pubblico. Alla lupara si sostituiscono il mitra e la pistola automatica mentre diventano importanti le connessioni con i partner commerciali della cocaina e dell’eroina, imponendo una politica estera di Cosa Nostra
Dirà Buscetta nel 1992: «La mafia è dominata dai Corleonesi. Si sono sciolte tutte le famiglie. Nel ‘63 un tale Michele Cavataio si rese responsabile di una cosa gravissima. Aveva messo delle bombe nelle macchine provocando la morte di civili e poliziotti. Fu uno scandalo per Cosa Nostra. Ora invece i Corleonesi possono mettere le bombe e far saltare i giudici». Negli Stati Uniti, nell’autunno del 1963, Joe Valachi di fronte alla Commissione senatoriale degli Stati Uniti rivelò il nome di Cosa Nostra e la sua organizzazione. Valachi fu il primo a parlare della Mafia come “Cosa Nostra”, in cui dice di essere entrato nel 1930, introdotto da Salvatore Maranzano. Dopo aver deposto e fornito il primo quadro dettagliato e attendibile dell’organizzazione, Valachi, dopo aver pronunciato la sua impressionante testimonianza di “pentito”, fu condotto nella prigione federale di La Tuna in Texas, dove morì d’attacco cardiaco nel 1971.

Dopo la morte del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, nominato prefetto di Palermo e ucciso barbaramente a colpi di mitra insieme alla giovane moglie, il figlio del generale, Nando dalla Chiesa, accusò lo scrittore Leonardo Sciascia di aver lasciato credere a suo padre di essere il capitano Bellodi, l’eroe del Giorno della Civetta, Lo scrittore siciliano non ne aveva voluto sapere di celebrare il generale ucciso rimproverandogli di non aver capito la mafia, di essere stato superficiale e imprudente e di essersi pericolosamente nutrito della propria auto leggenda. Del delitto dalla Chiesa, Tommaso Buscetta racconta a Falcone: «La sera del 3 settembre, qualche ora dopo l’assassinio di dalla Chiesa ero all’hotel Regent di Belem, sul Rio delle Amazzoni, con Gaetano Badalamenti e guardavamo la televisione. Quando venne trasmessa la notizia, Badalamenti commentò dicendo che quel delitto doveva essere stato un atto di spavalderia dei Corleonesi». Falcone trovò molto acuta questa analisi e commentò nella sentenza istruttoria: «Ciò che sorprende è la sicurezza con cui Badalamenti ha saputo analizzare la notizia e individuare cause e autori dell’eccidio».

Tuttavia, Buscetta accennò anche al possibile retroscena politico del delitto: «Badalamenti disse ancora che qualche uomo politico si era sbarazzato, servendosi della mafia, della presenza troppo ingombrante ormai del generale». Fu dunque Badalamenti a dire a Buscetta che il delitto aveva probabilmente due facce, una corleonese e una politica: il politico in questione viene sempre identificato in Vito Ciancimino, da Buscetta descritto sempre come il referente dei Corleonesi. La cosa importante da notare in questa data è che Buscetta accusa la “spavalderia dei Corleonesi” per il delitto dalla Chiesa e ipotizza che «qualche uomo politico» si sia sbarazzato del generale. Ma di “entità” esterna, nulla. Quei fatti sono ormai lontani e hanno perso parte della loro memoria emotiva. Ma la questione vagamente mafiosa è diventata all’inizio degli anni Novanta una questione politica e politicante, matura ed autonoma rispetto alla vera organizzazione criminale e dotata di vita e logica propria. Ed è il momento in cui la partita si fa veramente dura e in cui i personaggi più loschi scendono in campo.

(2– continua)

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.