“È imminente”, dice con espressione furtiva un esponente del Movimento. Mentre lo dice guarda in terra. Sembra si parli della fine dell’agonia di un parente stretto, prossimo al trapasso. E forse in un certo senso per molti è addirittura così. Vittime delle loro stesse scelte, i parlamentari del Movimento analizzano la doppia crisi che li condanna, cercando di capire come uscirne elettoralmente vivi. Non collettivamente ma ognun per sé, con l’obiettivo di sfangarla: il secondo mandato logora chi non ce l’ha. La prima delle due crisi parte da quando è arrivato Giuseppe Conte. Con lui in testa, il Movimento ha fatto solo passi indietro. Vanificato l’exploit del 2018. Allontanato militanti e sostenitori. E qualche colpo se lo sono inferto anche da soli: hanno ridotto di un terzo i seggi e adesso vedono ridursi dei due terzi il consenso stimato. Su cento deputati uscenti, 22 possono sperare di essere rieletti.

A pagare per lo psicodramma del primo partito in Parlamento che si sta sciogliendo come neve al Sole fortissimo di giugno potrebbe essere l’intera maggioranza. Complice il costante calo nei sondaggi, lo scarso successo nelle urne e pure la figuraccia fatta in Commissione esteri per “l’affaire Petrocelli”, i grillini non solo hanno iniziato a criticare le iniziative dell’esecutivo ma sono arrivati a chiedere un nuovo voto sull’invio di armi. Un’eventualità non necessaria, ma motivata – secondo i Cinquestelle – dal fatto che «lo strumento dell’invio delle armi, stando ai risultati ottenuti dopo 85 giorni di guerra non è efficace per costruire la pace. Questo è il motivo per cui chiediamo che presto quest’Aula possa esprimersi nuovamente con un voto». Così verrà presentata la discussa bozza di risoluzione che andrà poi votata a maggioranza al Senato, con il rischio concreto di mettere in minoranza l’esecutivo.

Gli scenari sono tre. C’è quello della deflagrazione che vedrebbe alla fine in campo tre soggetti simili, in concorrenza tra loro. La sindrome dell’ultima Dc, esplosa in una serie di piccoli succedanei. C’è lo scenario della ricomposizione, prospettato da Matteo Renzi: faranno tanto rumore per nulla e torneranno insieme dopo una cena pacificatrice con Grillo & Co. Ed infine c’è lo scenario bizantino, un percorso intermedio: il corpaccione del Movimento rimarrebbe in piedi, con Conte, ma alla chetichella, uno dopo l’altro, i parlamentari si defileranno via via, cercando approdi diversi. Il Pd, Fdi, i centristi: poco importa. Purché garantisca una ricandidatura di peso. “Ci sono 20 senatori e 45 deputati pronti a abbandonare Conte oggi stesso, se il voto in aula sarà contro Draghi”, ci dice un Senatore del Movimento. “Ma il conteggio è di quelli impossibili. Perché se si scoperchia quel pentolone, può uscire di tutto. Se si arriva alla rottura, potrebbero essere anche più di cento ad unirsi a Luigi Di Maio”.

In un partito nuovo? Sicuramente in un gruppo parlamentare. Una soluzione che darebbe al governo Draghi una continuità di maggioranza (al netto delle intemperanze in casa leghista) e al nascente gruppo parlamentare – i Responsabili di Draghi, per capirci – la garanzia di una capacità di spesa per gli uffici che gli eletti metteranno al servizio di una comunicazione giocoforza già tutta elettorale. Un giochino per chi è ormai pratico di contabilità parlamentari: se i Movimenti Cinque Stelle diventassero tre avrebbero più chance di riorganizzarsi anche sul territorio e sui media. A ridosso del centro draghiano potrebbe così nascere un partito che vedrebbe insieme Di Maio e Vincenzo Presutto, Dalila Nesci, Giancarlo Cancelleri e Laura Castelli. E a destra Alessandro Di Battista e Paola Taverna, riuniti con Vito Petrocelli e alcuni esponenti euroscettici della vecchia guardia usciti in precedenza (il gruppo L’Alternativa C’è) tenuti al guinzaglio da Marco Travaglio.

In mezzo, Conte continuerebbe il lavoro per cui sembra essere stato chiamato a guidare il Movimento, fino alla dissoluzione. Un obiettivo ormai alla portata del leader, assicurano analisti e sondaggisti. Antonio Noto, che presiede la Noto Sondaggi, ne è certo: «Se dovesse andare via Di Maio, nell’immaginario collettivo, sarebbe un po’ la fine del M5S perché Di Maio in fondo è la storia del M5S. La cosa paradossale di Conte è un’altra: ha pensato, erroneamente, che il suo alto indice di fiducia potesse avere un valore anche nel momento in cui fosse diventato leader del M5S. Mentre, per gli italiani, non c’è nessun legame fra Conte e i grillini: tanto è vero che nel momento in cui lui è diventato capo politico il M5S ha continuato a perdere consensi». Alessandra Ghisleri, Euromedia Research, la vede ancora più nera. “I Cinquestelle sono un caso politico di long Covid. Stanchezza infinita, convalescenza lunghissima. Detto questo abbiamo stimato tra l’11 e il 12 per cento il tesoretto che si ritrova ancora alle politiche” ma “nulla è per sempre e un anno è un tempo sufficiente per azzerare il capitale sociale”. Ci sarebbe anche un istituto di sondaggi che, interpellato proprio da Di Maio, ha iniziato a sondare le possibilità di successo di una sua iniziativa draghiana. I centristi non gli preparano una buona accoglienza.

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.