«Senza dubbio quest’incidente iniziale indebolisce Merz». Federico Ottavio Reho è coordinatore della ricerca del Wilfried Martens Centre for European Studies, la fondazione dei popolari, è appena tornato a Bruxelles dopo il congresso del Ppe a Valencia. Un successo che rischia di essere offuscato dallo stop al nascituro governo Merz a Berlino. «Tuttavia, se il futuro cancelliere riuscirà a lavorare in maniera convincente, con una maggioranza stabile, se farà le riforme interne che ha promesso e sarà attivo a livello europeo, io credo che l’inciampo di ieri sarà presto dimenticato».

Reho, torniamo allora a Valencia. Com’è andata?
«Blackout a parte, è andato tutto liscio. È stato un congresso di unità e continuità. Del resto, a differenza dei due precedenti, non c’erano questioni politicamente controverse che potessero causare divisioni. Lo scorso anno, a Bucarest, si doveva scegliere lo Spitzenkandidat e alcune delegazioni nazionali non sostennero von der Leyen. A Rotterdam, nel 2022, si votava sull’avvicendamento Tusk-Weber alla presidenza del partito. Significava riunire nella stessa persona la presidenza del partito e quella del gruppo parlamentare per la prima volta dagli anni Novanta. A Valencia, Weber è stato rieletto alla presidenza con quasi il 90% dei voti».

Anche la componente italiana porta a casa un buon risultato.
«Tajani è il secondo vicepresidente più votato, subito dopo il primo ministro finlandese Petteri Orpo e prima del vicepresidente tedesco. Un segnale importante, con un significativo incremento di consenso rispetto a Rotterdam. Un’indicazione della crescente credibilità della sua leadership dopo vari anni al governo».

Si conferma un Ppe a trazione tedesca?
«La Cdu-Csu ha sempre avuto un ruolo cruciale nel Ppe, anche se in passato era più bilanciato da altre delegazioni di dimensioni comparabili, come quella francese con Sarkozy o italiana con Berlusconi. Negli anni Novanta furono proprio i tedeschi a premere per allargare il partito a formazioni dell’Europa centrale, settentrionale e orientale che non erano democristiane in senso tradizionale. Intuirono che un Ppe troppo ortodosso in senso democristiano sarebbe stato minoritario nell’Europa post-allargamento. Una scelta strategica che portò il Ppe, dopo il 1999, al primo posto tra i gruppi parlamentari europei».

Come si inquadra in questa situazione il ruolo di partiti conservatori come Fratelli d’Italia?
«Fratelli d’Italia ha finora scelto con successo un atteggiamento strategicamente autonomo: dialoga con il Ppe e contribuisce a spostare verso il centrodestra gli equilibri del Parlamento e del Consiglio europeo, evitando che le sinistre vi abbiano un peso eccessivo. Al tempo stesso, Meloni mantiene canali di comunicazione con i Patrioti e la destra trumpiana in America».

Ecco, sulla criticità Trump quale strategia è emersa dal congresso?
«La tradizionale vocazione atlantista del Ppe resta molto forte, non ultimo nella sua componente tedesca. Per certi versi Merz è il più atlantista tra i leader tedeschi recenti, Merkel inclusa. Allo stesso tempo, però, i popolari rimangono profondamente europeisti. Non accetteranno mai una logica di relazioni bilaterali che indebolisca l’unità europea».

Modalità già adottata dall’amministrazione Trump.
«Sì, c’è una forte irritazione per quella che viene percepita come una mancanza di rispetto verso le istituzioni sovranazionali. Kaja Kallas è andata a Washington senza riuscire a incontrare Rubio. Stessa sorte è capitata a Metsola, che non è stata ricevuta dallo Speaker della Camera dei Rappresentanti, Mike Johnson. E von der Leyen non ha ancora incontrato Trump. Ben vengano gli sforzi di leader nazionali come Giorgia Meloni per mediare con Trump, ma gli americani dovrebbero tenere bene a mente che esistono competenze esclusive europee, tra cui proprio la politica commerciale».

Dazi, ma non solo. Le frizioni ci sono anche su Ucraina, Nato, Difesa comune europea…
«Il timore che l’approccio degli Usa rischi di indebolire Kiyv e di incoraggiare il revanscismo russo era percepibile. Come anche l’auspicio che un più forte sforzo europeo possa in parte bilanciare il potenziale disimpegno di Washington».

Quali sono le evoluzioni possibili?
«Due, fondamentalmente. Il primo, quello positivo, è uno stallo “coreano”: senza riconoscimento della sovranità russa sulle aree occupate e senza trattato di pace. La Russia controlla de facto una parte del territorio ucraino, ma il conflitto si congela e si definiscono garanzie di sicurezza occidentali abbastanza credibili da scoraggiare Mosca dal riprovarci».

Quello negativo?
«È lo scenario “vietnamita”: un cessate il fuoco di facciata. Con il ritiro degli occidentali e la mancanza di garanzie, la Russia si riorganizzerebbe in poco tempo per tentare di prendersi tutto il Paese. È l’ipotesi peggiore, che non possiamo scartare».

Difesa comune europea: sono stati fatti passi avanti proprio per volontà dei popolari.
«Molti più di quelli attesi pochi mesi fa. Stiamo mettendo in piedi un sistema in cui le spese militari saranno escluse dal Patto di stabilità e vi saranno prestiti europei a tassi vantaggiosi per i Paesi con meno spazio fiscale per aumentare le proprie spese e raggiungere gli obiettivi Nato. È probabile che il nuovo obiettivo venga fissato al 3,5% del PIL al vertice Nato di giugno».

Ma si può parlare davvero di una Difesa europea integrata?
«Non ancora. Quello in cantiere è un meccanismo comunitario per finanziare il riarmo nazionale. Come integrare il tutto in una Difesa veramente europea, che agisca quantomeno da “pilastro europeo” della Nato, resta una questione aperta. Costruire una forza armata europea richiederà più tempo e sarà politicamente ben più complesso».

Ce la faremo?
«Il Trattato della Comunità europea di Difesa del 1952 era già infinitamente più avanzato di quello che si prevede di fare ora. Per chi crede nell’integrazione europea, la Difesa rappresenta oggi quello che la moneta rappresentò per la generazione precedente».