Interviste Lobbiste
L'intervista
Relazioni pubbliche, Belcastro: “L’Italia è un mix di stereotipi, non ha una visione chiara di come raccontarsi, per questo ci siamo noi”
A colloquio con l’ex chief communications offi cer di SACE, con un’esperienza ventennale nel settore delle relazioni pubbliche

Rodolfo Belcastro da maggio 2019 a luglio 2024 è stato Chief Communications Officer di SACE, dove ha coordinato il team che per la società e le controllate gestisce Brand, Digital and People Communications, Ufficio Stampa ed Editorial Desk, Eventi, Sponsorship e Sostenibilità. Ha una esperienza ventennale nel settore delle Relazioni Pubbliche, Advisory Strategica, Comunicazione Corporate ed Istituzionale. Attualmente è Executive Advisor di Una Terra Early Growth Fund.
Rodolfo, sei nato in Sicilia, a Palermo, una città che da quanto racconti hai vissuto intensamente. Quanto l’esperienza di quel sud ti ha formato per gli uffici romani e i salotti internazionali?
«Beh moltissimo. Palermo è una città che ti insegna la complessità, il confronto e l’arte dell’adattamento. È un luogo di contrasti, dove la bellezza si mescola con la durezza, e dove ogni giorno impari a leggere tra le righe della realtà. Una città dove “la distanza minore tra due punti non è la linea retta, ma l’arabesco”. Vedi, questa capacità di interpretare i contesti, di ascoltare più di quanto si parli, di costruire relazioni solide e autentiche, è qualcosa che mi ha accompagnato sempre, sia nei corridoi istituzionali di Roma, che sul pavè milanese, che nei boardroom internazionali. Il Sud ti educa a questo: resilienza, capacità di negoziazione e strategia. Nulla è mai lineare e scontato, ma questa è la vera palestra per chi si occupa di comunicazione e di public affairs».
Senti e a proposito di questo, mi dici un detto popolare che sintetizza il tuo modo di essere, di lavorare o vedere le cose?
«“Senza sbatteri ‘un si piglia pisci.” (Senza fatica, non si ottiene nulla.) È una sintesi perfetta di quello in cui credo: il valore del lavoro, della tenacia e della preparazione. In un mondo in cui tutti cercano la scorciatoia, io continuo a credere nella costruzione solida, che si fa col metodo, e con l’impegno costante. Sì è vero, la fortuna esiste, ma spesso arriva a chi si è fatto trovare pronto».
Qualche anno fa hai lavorato anche come inviato da New York, osservando l’Italia da un’altra prospettiva. Ai fini degli investimenti internazionali, secondo te, paghiamo uno scotto per lo storytelling che c’è del Paese?
«Sì, e il problema è duplice. Da un lato, l’Italia è ancora raccontata con un mix di stereotipi che oscillano tra l’incanto del “Bel Paese” e la narrazione di un sistema non efficiente, talvolta inaffidabile, spesso complicato e certamente lento. Per questo è difficile attrarre investimenti, perché la percezione conta quasi quanto la realtà. Dall’altro lato, noi stessi non abbiamo una visione chiara di come vogliamo raccontarci. I paesi di lungo successo, come gli Stati Uniti, il Regno Unito o la Germania, per esempio, ma anche quelli di successi più recenti, come gli Emirati, costruiscono con coerenza il loro brand. L’Italia invece oscilla, tra eccellenze straordinarie e un racconto frammentato, che poco ha di strategico. Il mio lavoro consiste spesso nel colmare questo gap e creare una narrazione più efficace e competitiva per il nostro sistema economico».
Prima di studiare comunicazione hai studiato filosofia. C’è un filosofo o un autore che ti ha condizionato particolarmente? E perché?
«Friedrich Nietzsche. Il suo pensiero sulla volontà di potenza, sulla trasformazione continua, sull’idea che non esistano verità assolute, ma solo interpretazioni, mi ha profondamente influenzato. In comunicazione e nel public affairs, capire che la realtà è una costruzione sociale, che la narrazione può plasmare i fatti, e che l’azione determina il destino è una lezione che imparo ogni giorno. Non si tratta di manipolazione, ma di comprendere che la percezione è spesso più influente della sostanza, e chi sa governarla ha un vantaggio competitivo enorme».
Hai praticato rugby, uno sport dove per avanzare puoi gettare la palla solo all’indietro, e quando cade non sai mai il rimbalzo che direzione avrà. Come questa “ordinata follia” ha influenzato lo stile della tua leadership in azienda?
«Il rugby ti insegna due cose fondamentali: la squadra è più importante del singolo, e il progresso non è mai lineare. Spesso per andare avanti devi guardare indietro, riorganizzarti, costruire nuove strategie, e poi avanzare di nuovo. A volte serve colpire per primo, altre meglio aspettare e saper incassare. Questa logica mi ha aiutato molto nel guidare team e aziende. La leadership non è un atto di comando, ma di equilibrio, tra visione strategica e capacità di gestire l’imprevisto. E – proprio come nel rugby – non importa quante volte cadi: l’importante è rialzarti più velocemente dell’avversario».
Quanto conta oggi la reputazione? E come si fa a costruirne una buona?
«La reputazione è tutto. Ha anche un valore economico. È un vero e proprio asset finanziario “intangibile”, come dicono gli addetti ai lavori, ma immanente. Nel mondo digitale le informazioni viaggiano alla velocità della luce, e un danno reputazionale può avere effetti devastanti. Ma costruire una reputazione solida non è un lavoro di PR: è un vero e proprio lavoro di ingegneria, un investimento di lungo periodo, fatto di progettazione, pianificazione, manutenzione di un’infrastruttura cognitiva, che è fondata su coerenza, valori chiari e credibilità. Bisogna essere autentici, sapere chi si è, e comunicare in modo trasparente. La reputazione si guadagna goccia dopo goccia, ma si perde in un istante. Il segreto? Essere ciò che si racconta di essere».
Quali sono le cadute che ti hanno portato a essere quello che sei?
«Più che cadute parlerei di sfide. Ogni grande risultato che ho ottenuto è stato preceduto da molti momenti difficili: progetti falliti, scelte sbagliate, ostacoli imprevisti. Ma è proprio lì che si cresce. Ho imparato che il valore di un leader non si misura nel successo, ma nella capacità di affrontare il fallimento, sapendo rialzarsi con più esperienza, senza perdere fiducia nel proprio percorso».
Nel tuo ruolo di advisor nel settore dell’impact investing, pensi che il tema della sostenibilità sia ancora attuale per i fondi di investimento? Anche nell’era Trump?
«La sostenibilità non è una moda, è un imperativo, un vantaggio competitivo sul mercato. Gli investitori stanno capendo che il valore a lungo termine passa dalla cura per la sostenibilità: non solo ambientale, su cui si è focalizzato molto il mainstream, creando spesso equivoci e slogan ideologici polarizzanti, ma anche sociale e di governance (le tre lettere dei criteri ESG). Anche in un contesto politico mutato, e apparentemente meno sensibile a questi temi, le aziende e i fondi che sottovalutano il proprio impatto rischiano di perdere competitività. Non è una questione ideologica, ma di business: i mercati premiano chi guarda avanti».
Guardando al futuro, come vedi l’evoluzione della comunicazione aziendale nei prossimi cinque anni?
«Sempre più integrata, sempre più profondamente legata alle scelte strategiche del top management. Il confine tra comunicazione, public affairs e reputazione è ormai labile. Le aziende stanno imparando a investire adeguatamente, e a gestire al massimo livello di board of directors e c-line l’ecosistema dell’informazione, con una visione d’insieme, anticipando le crisi, costruendo narrazioni solide e governando il digitale. Chi non capisce che oggi comunicazione, reputazione e public affairs sono tra i più efficaci investimenti a supporto del business non sarà competitivo».
E se la tua carriera fosse un romanzo, come si chiamerebbe il capitolo attuale?
«“Strategia e Resilienza”. Perché? Siamo in un’epoca complessa, veloce, piena di sfide e quindi di opportunità. Serve lucidità per prendere decisioni, ma anche la capacità di adattarsi e resistere ai cambiamenti, senza perdere la visione. È il momento di giocare con intelligenza – anche con quella artificiale – e determinazione. Come in una partita di rugby: avanzare, proteggere il campo… e non smettere mai di costruire il gioco».
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