C’è una singolare disputa in Italia fra chi rimane nel Pd e chi segue Renzi nella sua nuova avventura. Il Pd è il partito del riformismo, Renzi sbaglia, dicono quelli che rimangono. No, il Pd, anche con l’intenzione di una alleanza strategica con i 5 stelle, rinuncia ad una evoluzione riformista e quindi bisogna costruire una vera forza liberal riformista, dicono quelli che vanno con Renzi. Ma cos’è, veramente, il riformismo? Cosa è stato e cos’è in Italia. È un tema che ritornerà di grande attualità, nelle prossime settimane, per i venti anni dalla morte di Bettino Craxi in esilio. E a 30 anni circa da Tangentopoli, quando i riformisti furono travolti dai giustizialisti. Una sera Silvio Berlusconi ci fece questa domanda. Eravamo, a cena, ad Arcore. 15 anni fa. Ero lì con i socialisti milanesi e Stefania Craxi. Chiese: mi spiegate la differenza fra riformatori e riformisti? Gli risposi utilizzando una analisi del filosofo Lucio Colletti. Il riformismo non è una teoria ideologica, diceva. È una attitudine. È quasi una forma mentale. Riformista non è quello che fa le riforme, non solo almeno. Riformista è colui che è disposto a rifarle, le riforme, quando si rivelano sbagliate o superate dal tempo. È l’idea di progresso che incontra la realtà. È la consapevolezza che siamo imperfetti. È uno stato d’animo. E se siamo imperfetti non possiamo nemmeno immaginare di fare leggi e opere perfette. Il perfettismo è massimalismo. E moralismo giustizialista. È lo stato d’animo opposto. Il riformismo è gradualismo. Cambiamenti graduali, ma continui.

Il contrario del proposito di cambiamenti radicali, di sistema, una volta per tutte. E cioè il contrario del programma dei riformatori, secondo Colletti. I quali riformatori vogliono cambiamenti di sistema, strutturali. Che, o possono rivelarsi velleitari, buone o cattive intenzioni. Oppure, se realizzati, poco dopo, ti portano a fare il salto nel conservatorismo. Hai cambiato il sistema, adesso devi conservare ciò che hai creato. L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non si tocca, dice, ad esempio, la Cgil, dice buona parte del Pd, ma anche il suo opposto, la Lega, che va fortissimo in Cgil e in Emilia. L’articolo 18 decide l’asse di potere in fabbrica. Tangentopoli è stato un cambio di sistema. Ha spostato l’asse del potere dal Parlamento alle Procure. Poi c’è stata una lunga stagione di conservazione del nuovo potere, con una inefficace reazione di Berlusconi. Sino a Di Maio e Salvini. Il Pd, al contrario di quanto si dice, non appartiene al filone storico del riformismo. Tutt’altro. Non è un giudizio, tanto meno un cattivo giudizio. È la storia. Le culture sulle quali il Pd è nato, quella comunista e post comunista e quella del cattolicesimo democratico, sono storicamente culture avverse al riformismo. Sostenere il contrario è l’imbroglio intellettuale di Veltroni. Berlinguer e Togliatti consideravano il riformismo una cultura debole, molliccia. Facilmente corrompibile, dalla borghesia, dal capitalismo. Diceva Togliatti di Turati, padre del riformismo italiano: “Il più corrotto, il più spregevole, il più ripugnante tra tutti gli uomini della sinistra”.

Putridi riformisti, si diceva. Socialfascisti. È quello che si è detto di Craxi. Il riformismo è stata una cultura minoritaria in tutta la storia politica del Paese. Minoritaria nel mondo cattolico. Minoritaria a sinistra. Minoritaria anche nel Psi, salvo Turati nei primi 10 anni del secolo scorso. E poi nei 10 anni di Craxi. Tutto il resto è confusione. Alcune volte voluta. Il moralismo e il giustizialismo, del Pd, degli anni passati, che rischia oggi di riemergere dentro l’idea di una collaborazione strategica con i 5 stelle, che drammaticamente si incontra proprio sul terreno della giustizia (ingiusta), non appartiene al riformismo. È il suo contrario. Quello di Renzi è vero riformismo? C’è del buono. Ma un viaggio ad Hammamet farebbe, definitivamente, chiarezza!

Sergio Pizzolante

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