Molte e prevedibili sono le difficoltà del Governo nel varare il decreto legge dedicato alla semplificazione amministrativa, in particolare nell’approntare le norme di revisione del reato di abuso di ufficio e quelle destinate a incidere sui presupposti della responsabilità amministrativa dei funzionari pubblici, per la quale è competente la Corte dei conti, un autentico spauracchio per coloro che hanno responsabilità di firma perché incide sul loro patrimonio personale. È noto che l’abuso d’ufficio per la indeterminatezza della fattispecie incriminatrice e la responsabilità per comportamenti dolosi e gravemente colposi che abbiano arrecato danno al pubblico erario siano da tempo tra le cause di quella fuga dalla responsabilità che rende difficile concludere nei tempi previsti i procedimenti amministrativi, generando lentezze ed inefficienze gravi e, soprattutto, rendendo vani i tentativi di riforma voluti dal legislatore e poi finiti impantanati nella palude delle inerzie amministrative.

Dunque, si tenta di riscrivere il reato di abuso di ufficio rendendo meno generico il profilo incriminante e di limitare la responsabilità ai soli casi di dolo del funzionario pubblico, con esclusione della colpa grave, che in fondo si risolve nei fatti in un riesame ed in un apprezzamento esterno a volte anche di merito dei comportamenti amministrativi da parte del Giudice contabile, che si sovrappone a quello del competenti organi amministrativi. Immediate le reazioni di chi teme che un allentamento dei controlli possa aggravare quei fenomeni corruttivi che di certo costituiscono un fattore di inquinamento della vita amministrativa. Ma sul punto è necessario fare chiarezza con determinazione. La politica richiede visioni, passioni ed emozioni. L’amministrazione invece impone ragione tecnica e discernimento. Il riformismo che di quella ragione è realizzazione se riesce ad innescare processi continui di rinnovamento dell’esistente incide sulla realtà più di una rivoluzione, che si consuma nell’istante storico in cui si realizza.

Il riformismo come rivoluzione forte e dolce deve affrontare resistenze, interessi consolidati e contrastanti e lo può fare solo avendo chiari gli obiettivi da perseguire e le conseguenze del raggiungimento di tali obiettivi. Ordunque, sono dati di comune esperienza le lentezze, i tempi biblici dei procedimenti amministrativi, l’elusione dei termini previsti dalla legge per la conclusone dei procedimenti, la farragine del concerto tra le diverse pubbliche amministrazioni, la complessità della tutela dinanzi al giudice amministrativo oltretutto a volte non realmente satisfattiva della domanda di giustizia del privato leso dall’inerzia dell’amministrazione. Tutto questo notoriamente scoraggia chiunque voglia affrontare il rischio di doversi confrontare con il complesso normativo e amministrativo del nostro paese. Molte le cause certo, ma una determinante è la moltiplicazione dei controlli che soffocano il potere di amministrazione attiva, senza proporzione tra l’esigenza del fare e il dovere di controllare.

Un’eresia per i teorici di quella paranoia permanente che si fonda su una fondamentale sfiducia nei cittadini, invece una realtà che obbliga un legislatore che voglia seriamente riformare, sulla base del principio del corretto bilanciamento tra efficienza dell’agire e correttezza delle azioni. Le norme penali attualmente vigenti in tema di reati della pubblica amministrazione sono più che sufficienti ad assicurare una adeguata repressione dei comportamenti devianti – e si pensi che un fatto corruttivo può essere punito più di un omicidio preterintenzionale – ad esse appare sufficiente aggiungere una corretta quota di controlli concentrata in fase successiva all’adozione degli atti amministrativi in un unico livello di esercizio. Quindi, ben venga la riforma della responsabilità amministrativa limitata ai soli comportamenti dolosi, riforma che dovrebbe essere accompagnata, rispolverandola da un passato recente, quella della prescrizione, che come in tutti i casi di illecito dovrebbe decorrere dal fatto generativo di danno erariale e non dal suo accertamento, poiché siamo completamente al di fuori da moduli privatistici che possano giustificare la diversa previsione.

Si eviterebbe cosi ai pubblici funzionari di essere chiamati a rispondere dinanzi alla Corte dei Conti anche decenni dopo la cessazione della carica, anni dopo il collocamento in pensione, una specie di incubo permanente che può connotare l’intera esistenza. Perché allora fingersi anime belle che si stracciano le vesti perché nessun pubblico funzionario ama assumersi la responsabilità della firma di un provvedimento, per la quale può essere simultaneamente chiamato a rispondere dalla Procura della repubblica,dalla Procura della Corte dei Conti, dalle Autorità di controllo e via procedendo? Forse un sano approccio laico alla questione porterebbe a maggiori utilità per il paese nel suo complesso.