La mobilità sanitaria
Salute i viaggi della speranza da Sud a Nord, un giro d’affari da 5 miliardi: la Germania il modello da seguire
Guardiamo al modello tedesco: la parte più ricca del Paese, avendo un numero maggiore di personale e di strutture sanitarie, si carica forme di compartecipazione più alte
Gli ultimi dati di fine anno, ancora ufficiosi, evidenziano un aumento della mobilità sanitaria da Sud verso Nord. Quel fenomeno, più comunemente chiamato “i viaggi della salute” non è altro che la scelta – quasi sempre motivata da ragioni legate alla carente offerta sanitaria territoriale – dei cittadini di cercare la cura lontano dalla propria città o Regione. Un paziente si sposta dalla zona in cui vive per cercare cure e terapie più idonee. Anche quest’anno più di un milione di italiani emigra, da Sud a Nord, determinando anche maggiori costi per il sistema. La mobilità sanitaria è quella che può avvenire all’interno del Paese, tra una Regione ad un’altra, oppure da uno Stato ad un altro. Ma è la prima ad avere più incidenza, sia sulla richiesta di assistenza sanitaria, sia sulle dinamiche che determinano la sostenibilità finanziaria del Fondo Sanitario e della già iniqua distribuzione tra le Regioni. Questa pratica dal punto di vista sanitari/amministrativo è regolata da un sistema autorizzativo rilasciato dalla Asl di competenza.
Ricordo che, da Commissario di governo per il piano di rientro dal disavanzo sanitario della Regione Campania, firmai un decreto che predispose linee guida per limitare al necessario la mobilità, elemento che incide in maniera significativa sull’equilibrio dei bilanci delle Aziende Sanitarie. Il Consiglio di Stato ha sancito come «sarebbe illegittimo limitare la mobilità solo per perseguire un contenimento di spesa che, in realtà, appare come un “falso problema” rispetto al fondamentale obbligo di garantire uniformità nei Livelli essenziali di assistenza”. Determinazione corretta che ha imposto una più puntuale valutazione delle specifiche autorizzative da limitare alle reali esigenze della prestazione di cura. Per alcune specifiche patologie lo stesso Consiglio di Stato ha anche evidenziato che “porre limitazioni alla mobilità interregionale, senza porre rimedio alle sperequazioni esistenti nella distribuzione territoriale delle strutture sanitarie di eccellenza per la cura di tali patologie, implica l’adozione di una misura che viola il principio di proporzionalità, finendo per comprimere, in modo eccessivo e irragionevole, il legittimo interesse del paziente a ricevere la migliore cura per la propria patologia”.
La questione centrale rimane, quindi, quella di garantire i livelli essenziali delle prestazioni, competenza ‘costituzionale’ dello Stato, per superare gli ostacoli economici e sociali che determinano questo odioso e insostenibile divario territoriale. Divario rimarcato dal fatto che la mobilità passiva è tutta intestata al Sud. Questa riguarda l’invio di fondi che corrispondono ai costi per ripagare le altre Regioni, dei servizi di cura che hanno messo a disposizione per i pazienti autorizzati alla prestazione sanitaria fuori Regione. Dal punto di vista finanziario, la mobilità attiva è una fonte di credito, mentre invece quella passiva è una fonte di debito. Dal punto di vista concreto è un ulteriore finanziamento extra budget che rafforza le aree territoriali più organizzate, aumentandone la capacità di crescita dei servizi sanitari. Per quelle che pagano, invece, una ulteriore decrescita nei medesimi servizi. Sono più di 10 anni che questa voce rimane pressoché stabile, determinando effetti strutturali che incidono negativamente sul divario territoriale esistente. Le cause sono da ricondurre alla insufficiente offerta sanitaria, alle lunghe liste di attesa e alla carenza di servizi alla persona.
È un fenomeno in costante crescita con un ‘giro d’affari’ pubblico, calcolato dalla Fondazione Cimbe in oltre 5 miliardi di euro. I ricoveri fuori regione sono più di un milione, quasi centomila le famiglie che si spostano per curare un familiare, spesso un minore.
La Regione più attrattiva, in mobilità sanitaria, è la Lombardia, seguono l’Emilia-Romagna e il Veneto ultime la Calabria, la Campania e la Sicilia. Queste sono le cifre più significative: Lombardia più 260 milioni, Emilia Romagna più 300 milioni, Veneto più 220; di contro, Campania meno 230 milioni, Puglia meno 120 milioni, Sicilia meno 180 milioni. In valore assoluto la mobilità interregionale supera, ogni anno, oltre tre miliardi mezzo di euro, con un esodo costante e continuo da Sud verso il Nord.
Il turismo sanitario imporrebbe un’analisi dei risultati per predisporre un miglioramento dei servizi e correzioni di sistema. Negli ultimi venti anni sono state sperimentate numerose misure di contenimento, ma nessuna si è dimostrata efficace, anzi la situazione è sempre peggiorata. Allora che fare? Quando non si hanno le idee chiare proviamo almeno a “copiare” le migliori prassi esistenti in Europa.
Ancora una volta il modello tedesco ci può venire in aiuto. In Germania prevale un sistema mutualistico concorrente e complementare tra Stato centrale e Lander, tuttavia, anche se vige un sistema federale, la quasi totalità delle prestazioni sanitarie sono uguali in tutto il territorio. Le aree svantaggiate – in Germania persiste ancora un divario Est-Ovest – sono sostenute, ad esempio, da rette, per la permanenza nelle strutture residenziali, mediamente più bassa rispetto agli altri Länder. La parte più ricca del Paese, avendo un numero maggiore di personale e di strutture sanitarie, si carica forme di compartecipazione più alte. Un sistema simile al nostro fondo perequativo, ma collegato più direttamente alla singola prestazione erogata, e molto più capiente. Basti ricordare che, per ridurre il divario territoriale, la Germania in cinque anni, successivi all’unificazione, ha speso circa 500 miliardi, una volta e mezzo la cifra spesa dall’Italia nei primi cinquanta anni. Forse la risposta è tutta qui.
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