Ricorrendo ancora una volta impropriamente allo strumento del decreto legge, il governo ha varato nuove norme per regolamentare, si afferma – anche se nella realtà pare più per ostacolare – le attività di soccorso in mare delle Ong. In primo luogo il Governo ritiene di poter imporre che per ogni missione le navi delle Ong possano effettuare soltanto un’operazione di salvataggio, a meno che non vengano autorizzati. Il governo sembra tuttavia dimenticare che non è legittimo attuare alcuna distinzione tra navi “umanitarie” e navi in servizio commerciale, né tra navi che effettuerebbero il soccorso casualmente e navi che lo fanno sistematicamente.

Parimenti sembra dimenticare che l’art. 489 del Codice della navigazione dispone che “Il comandante di nave, in corso di viaggio o pronta a partire, che abbia notizia del pericolo corso da una nave o da un aeromobile, è tenuto nelle circostanze e nei limiti predetti ad accorrere per prestare assistenza, quando possa ragionevolmente prevedere un utile risultato, a meno che sia a conoscenza che l’assistenza è portata da altri in condizioni più idonee o simili a quelle in cui egli stesso potrebbe portarla” e che in modo ancor più stringente il successivo art. 490 dispone che “Quando la nave o l’aeromobile in pericolo sono del tutto incapaci, rispettivamente, di manovrare e di riprendere il volo, il comandante della nave soccorritrice è tenuto, nelle circostanze e nei limiti indicati dall’articolo precedente, a tentarne il salvataggio, ovvero, se ciò non sia possibile, a tentare il salvataggio delle persone che si trovano a bordo”.

Le disposizioni del nostro Codice sono del tutto conformi a quanto prevede la Convenzione Onu sul diritto del mare (UNCLOS) che all’articolo 98, paragrafo 1 dispone che “Ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio o i passeggeri: a) presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo; b) proceda quanto più velocemente possibile al soccorso delle persone in pericolo, se viene a conoscenza del loro bisogno di aiuto, nella misura in cui ci si può ragionevolmente aspettare da lui tale iniziativa”. La Convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare del 1974 (Convenzione SOLAS) obbliga il “comandante di una nave che si trovi nella posizione di essere in grado di prestare assistenza, avendo ricevuto informazione da qualsiasi fonte circa la presenza di persone in pericolo in mare, a procedere con tutta rapidità alla loro assistenza, se possibile informando gli interessati o il servizio di ricerca e soccorso del fatto che la nave sta effettuando tale operazione…” [Capitolo V, Regolamento 33(1)].

La normativa internazionale è dunque chiara: lo Stato deve – si tratta di un obbligo, non di una facoltà- esigere dal comandante della nave che egli agisca per prestare soccorso. Fatta salva l’esigenza di valutare gli eventuali rischi per la sicurezza della nave, non ci può essere alcun margine di scelta da parte del comandante di qualsiasi nave ad effettuare anche diversi soccorsi qualora nel corso della propria navigazione intercetti più situazioni di pericolo e altre navi non siano in grado di intervenire, né le autorità italiane, salvo incorrere nella commissione di gravi reati, possono ordinare al comandante della nave in pericolo di non effettuare tali soccorsi. La destinazione non può che essere un porto sicuro, ovvero, secondo le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare (Risoluzione MSC.167(78)), un luogo dove la vita e la sicurezza dei naufraghi non sono minacciate.

Potrebbe ad esempio il governo italiano impedire il soccorso plurimo di una nave delle Ong perché è a conoscenza dell’arrivo – o lo richiede – di una nave libica? No perché “nessuno può, in violazione del principio di non respingimento, essere sbarcato, costretto a entrare, condotto o altrimenti consegnato alle autorità di un paese in cui esista, tra l’altro, un rischio grave di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura, alla persecuzione o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti, o in cui la vita o la libertà dell’interessato sarebbero minacciate a causa della razza, della religione, della cittadinanza, dell’orientamento sessuale, dell’appartenenza a un particolare gruppo sociale o delle opinioni politiche dell’interessato stesso, o nel quale sussista un reale rischio di espulsione, rimpatrio o estradizione verso un altro paese in violazione del principio di non respingimento” (art. 4 paragrafo 1, Regolamento (UE) n. 656/2014 sulla sorveglianza delle frontiere marittime esterne).

Si fatica dunque a vedere quale possa essere lo spazio di legittima applicazione di tale disposizione, mentre sorge il serio dubbio che essa, se nascerà, possa essere costituzionalmente illegittima per non conformità alle norme di diritto internazionale. Altre nuove norme imporrebbero alle Ong l’obbligo di informare gli stranieri soccorsi sulla possibilità di richiedere asilo. Richiedere di svolgere un’attività per informare le persone salvate dei loro diritti ed attuare una prima registrazione della loro volontà di chiedere asilo sarebbe positivo, ma sembra esservi un obiettivo nascosto dietro ciò, ovvero quello di cercare di attribuire la competenza all’esame delle domande di asilo al paese di bandiera della nave, se si tratta di un Paese della Ue.

È un obiettivo però del tutto velleitario perché, come già illustrato su queste pagine (Il Riformista, 5 novembre 2022) il diritto dell’Unione Europea in materia di asilo è sovraordinato rispetto alle norme interne (in particolare le disposizioni della Direttiva 2013/32/UE e del Regolamento Dublino III) e non prevede che tra i criteri di attribuzione della competenza all’esame delle domande di protezione internazionale via sia quello della bandiera della nave soccorritrice. A nulla vale invocare, come hanno fatto alcuni, l’art. 92 della citata Convenzione UNCLOS laddove prevede che le navi che battono la bandiera di uno Stato “nell’alto mare sono sottoposte alla sua giurisdizione esclusiva” dal momento che, come chiarito dall’art. 94 paragrafo 2 lettera b) della stessa Convenzione ogni Stato “esercita la propria giurisdizione conformemente alla propria legislazione, su tutte le navi che battono la sua bandiera, e sui rispettivi comandanti, ufficiali ed equipaggi, in relazione alle questioni di ordine amministrativo, tecnico e sociale di pertinenza delle navi” e l’accesso alla protezione internazionale nel territorio dell’Unione Europea e ai suoi confini è normata da una specifica disciplina di settore.

Se il Governo italiano intende sostenere, come ha dichiarato più volte, che la competenza all’esame della domanda di asilo dei naufraghi si radica sulla base della bandiera della nave di salvataggio, non può disciplinare con propria norma interna una materia che è invece di esclusiva competenza dell’Unione europea. Se ritiene invece che il diritto dell’Unione sull’asilo vada interpretato nel senso che tale criterio è già applicabile, potrebbe, senza alcun scalpore, attivare un contenzioso giudiziario con gli stati Ue che ritiene competenti portando la questione. Però non lo hai mai fatto e suppongo che non lo farà sapendo che la sua tesi è giuridicamente infondata (ma va tenuta sempre viva perché utile alla propaganda). È inoltre utile richiamare un recente documento internazionale di Unhcr – Considerazioni legali sui ruoli e le responsabilità degli Stati in relazione al salvataggio in mare, al non respingimento e all’accesso al diritto d’asilo, 1.12.22 – che evidenzia come “Gli Stati di bandiera delle navi che prestano assistenza, in particolare nel caso di navi commerciali o di altre navi private i cui comandanti non agiscono sotto il controllo dello Stato di bandiera interessato in qualità di suo agente, non si può ritenere abbiano un preciso obbligo giuridico – al di là degli obblighi di coordinare e cooperare per garantire uno sbarco tempestivo e sicuro e di adottare misure appropriate per proteggere dalle violazioni dei diritti umani, compreso il respingimento – di assumersi la responsabilità in prima istanza di accogliere le persone soccorse, di ammetterle a una procedura di asilo sul loro territorio e di concedere protezione internazionale”.

Alcuni chiarimenti merita poi la scelta, già in atto nella prassi, di assegnare porti di sbarco italiani lontanissimi dalle operazioni di soccorso con il malcelato intento di imporre nuovi ingenti costi alle Ong e tenerle lontano più tempo dalla zona di operazione dei soccorsi. Ciò a prima vista può apparire una scelta cattiva, ma legittima; tuttavia non ritengo affatto che sia così per due ragioni, una generale ed una specifica. In primo luogo lo stato di diritto si distingue da un qualsiasi regime autoritario o da una delle tante satrapie che purtroppo affollano il pianeta perché l’operato della pubblica amministrazione deve essere sempre motivato ed improntato a principi di razionalità, imparzialità ed equità. Se il governo italiano intende indicare un porto di sbarco geograficamente lontano dall’area delle operazioni di soccorso lo deve motivare con ragioni oggettive quali la non agibilità di nessuno dei porti più vicini o ragioni stringenti che nulla hanno a che fare con generiche affermazioni quali quelle circolate in questi giorni , come la rotazione per alleggerire alcune città nella gestione degli sbarchi e della successiva accoglienza.

In secondo luogo, sono nuovamente le norme internazionali a chiarire ogni dubbio: gli emendamenti del 2004 all’art. 33 della Convenzione SOLAS e al capitolo 3.1.9 della Convenzione SAR sulla ricerca e il soccorso marittimo del 1979, impongono agli Stati di operare affinché i comandanti delle navi che prestano assistenza imbarcando persone in difficoltà in mare siano sollevati dai propri obblighi con una minima ulteriore deviazione rispetto alla rotta della nave al fine di effettuare lo sbarco al più presto. Ogni richiesta non adeguatamente motivata di effettuare una deviazione o un allungamento della navigazione che rallenti la conclusione delle operazioni di soccorso si pone quindi in contrasto con tali norme.

A guardarle nel loro complesso, le nuove norme del Governo italiano per cercare di contrastare l’opera di soccorso delle organizzazioni umanitarie aumentando il numero di coloro che, invisibili, affogano in mare, appaiono un coacervo di disposizioni in parte illegittime in parte inapplicabili, buone solo per alimentare una miserabile propaganda intrisa di messaggi violenti.