Il cucciolo di orso polare su un pezzetto di ghiaccio alla deriva, assediato dal mare nero intorno e dall’appetito dell’orca, non ha scelto di ritrovarsi in quella pericolosa solitudine. Nient’altro che una distrazione della madre, o la sfortuna di un collasso di quella crosta indebolita proprio mentre stava lì.

I tre che invece si sono fatti dieci giorni di navigazione, dalla Nigeria alle Canarie, incurvi in un’intercapedine della poppa di una petroliera, e che disidratati e quasi morti di freddo sono giunti a destinazione per apprendere che sarebbero stati rimessi in sesto e avrebbero ricevuto cure, sì, ma solo per il tempo necessario a ricacciarli là dove avevano deciso di tentare il viaggio, abbarbicandosi al pezzo di ferro che spuntava dal retro di quella nave enorme, quei tre non per un colpo di sfortuna si sono ritrovati esposti al rischio di morire mangiati dal mare, o di inedia nel buco in cui si erano insinuati: è stata la fame a spingerceli, è stata la miseria, è stata la disperazione di una vita che accetta di affrontare questi rischi, queste sofferenze, piuttosto che rassegnarsi all’irreversibilità di una condizione invivibile.

Rischiare gli stenti di un viaggio pericoloso, “pazzo”, piuttosto che continuare una vita di stenti. Ritenere che sia da pazzi fare quel che han fatto quei tre è esatto, ma quanto è da pazzi buttarsi da un grattacielo in fiamme, quanto è da pazzi bere acqua di mare come fanno i naufraghi impazziti di sete, quanto è da pazzi mangiare quel che si trova, uno straccio o una carogna putrefatta, quando si è dispersi e impazziti di fame. Troppe volte abbiamo dovuto ascoltare la reprimenda che li vuole irresponsabili e perfino passibili di scrutinio morale perché tentando questi viaggi mettono a rischio la propria vita e quella dei propri figli, mentre se restassero nei loro Paesi non assisteremmo a tante tragedie.

Un giudizio che si può emettere solo perché non si considera che la possibile tragedia cui vanno incontro è per loro più accettabile della tragedia certa che sono costretti a subire, e a vedere inflitta ai propri figli. Dovremmo guardare a ciò da cui scappano: e, quando assistiamo a quel che rischiano e soffrono provando a venire qui da noi, dovremmo capire che è quella “pazzia” a fargli correre certi pericoli, la pazzia indotta da queste realtà persistenti che sono la fame, la miseria, la guerra, le cose di cui è facile non tenere conto quando non si sa che cosa significa patirle. Accade che istituzioni e Paesi onorino nell’accoglienza persone che si siano illustrate per coraggio, per meriti civili, per sacrificio di vita. Che a nessuno venga in mente di dare sicurezza e ricovero ai tre che hanno avuto il folle coraggio di salire su quello spuntone, combattendo contro la morte per dieci giorni, e quasi riuscendoci, provava a ghermirli, è solo molto triste.

Facciamo questo discorso, è evidente, perché la storia di questi tre, pur strabiliante per i particolari della vicenda, è in realtà ordinaria e comune a tantissimi. Si tratta di esseri umani che provano a evadere dallo stato di derelizione che li incarcera, ed è solo molto triste che siano condannati a tornarvi. Non è molto diverso rispetto al caso dell’innocente che prova a scappare dalla prigione e poi è riacciuffato e messo dentro di nuovo: anche questi altri, infatti, che colpa hanno?