L'ex ministro vorrebbe rivedere la legge
Salvini contro il reato di tortura

È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà». Così recita la Costituzione italiana all’articolo 13 ed è l’unico caso, in tutta la Costituzione, in cui si cita il verbo punire. In altre parole dunque, per la nostra carta fondamentale, l’unico reato che un paese democratico non può non punire è proprio il reato di tortura. Ogni atto di violenza fisica e morale sulle persone private della libertà, soprattutto se commessa da rappresentanti delle istituzioni repubblicane, offende la civiltà democratica e quelle stesse istituzioni. Non a caso la legislazione che regola tutti i contesti in cui si esercita la privazione della libertà, e la formazione degli operatori che ci lavorano, contiene innumerevoli norme e procedure mirate proprio a prevenire quella violenza. E per fortuna nelle forze dell’ordine del nostro Paese questa cultura è largamente maggioritaria. Eppure in Italia la tortura non è stata reato per lunghissimo tempo, in barba all’art. 13 della Costituzione ed in barba agli obblighi e alle convenzioni internazionali, di cui pure l’Italia era parte, che imponevano che il reato di tortura entrasse nel nostro codice penale. E non perché nessuno si fosse posto il problema (la prima proposta di legge di Antigone in materia risale al 1998) ma perché fino a due anni fa il parlamento della Repubblica ha ritenuto che in Italia la tortura non dovesse essere reato.
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Pare incredibile ma è così che stanno le cose, e quando finalmente il reato è stato introdotto, lo si è fatto con un compromesso. Ci si è allontanati dalla definizione prevista dalla Convenzione ONU, secondo la quale la tortura è un crimine proprio di un pubblico ufficiale, e si è inoltre previsto che ci debba essere crudeltà, che la condotta debba essere reiterata (violenze e non violenza) e che questa debba cagionare acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico. Tutte restrizioni che nella definizione ONU non ci sono. Eppure, per approvare questa norma, il dibattito parlamentare e nella società è stato aspro e lacerante. Le resistenze molto forti. Non sorprende dunque che, a due anni dalla approvazione, per alcuni sia già ora di rivedere la legge. E non sorprende che a dirlo sia il segretario della Lega Matteo Salvini, intervenendo al Congresso nazionale del Sap a Rimini. Non nuovo ad affermazioni di questo tipo, Salvini afferma «quando torniamo al Governo dobbiamo rivedere questa legge perché non si può lavorare col terrore di non poter garantire la propria sicurezza e l’altrui sicurezza». Perché c’è sempre stato, e continua ad esserci, il partito di quelli che stanno con le forze dell’ordine sempre e comunque, ignorando il fatto che, in uno stato di diritto, nessuno può essere al di sopra della legge, men che mai chi esercita legittimamente l’uso della forza a tutela di tutti noi. E ben lo sanno le forze dell’ordine stesse, che ogni giorno devono garantire la sicurezza dei cittadini nel pieno rispetto delle leggi, anche quando a violarle sono dei colleghi. Il paradosso è evidente. Da un canto le istituzioni repubblicane, con le forze di polizia in testa, impegnate, a volte con fatica, al rispetto delle leggi e della Costituzione. Dall’altro, per assecondare gli appetiti di parte dell’elettorato, c’è chi si professa al loro fianco di fatto delegittimando e screditando questo impegno. Si vorrebbe schiacciare la realtà su una semplificazione grottesca. Da un lato i criminali, che hanno sempre torto, e dall’altro le polizie, che hanno di conseguenza sempre ragione, dimenticando che i primi si definiscono per avere violato le leggi, mentre i secondi sono chiamati ad applicarle. In uno stato di diritto non ci sono crimini e non ci sono sanzioni se non tassativamente previsti dalle leggi. Salvini da neo ministro ha giurato «di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi». E si augura di rifare lo stesso giuramento a breve. Si tratta dello stesso giuramento che fanno i neo agenti di polizia. Questi ultimi sanno bene cosa quel giuramento significhi. Chiaramente l’ex ministro Salvini no.
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