Le sentenze non si commentano”. Quante volte l’abbiamo sentito? Quando una decisione di giustizia irrompe nel dibattito pubblico, l’intimazione rivolta a chi si azzardi a dirne qualcosa è sempre quella: che le sentenze non si commentano. Si tratta chiaramente di un balordo luogo comune, perché il diritto di esprimere opinioni è ancora protetto dalla Costituzione repubblicana e non cessa di esistere giusto perché lo si esercita verso un provvedimento giurisdizionale. Ma perché quell’obiezione cretina fiorisce tanto spesso sulla scena del discorso in materia giudiziaria? È abbastanza semplice e molto preoccupante: perché in profundo si ritiene che una sentenza sia meno il prodotto di un servizio pubblico, come tale esposto all’errore anche grave, che una specie di impassibile giudizio oracolare. Con questo di peggio: che quell’impassibilità si pretende dovuta e garantita non in ragione di ciò che la pronuncia di giustizia contiene ma per il fatto che a emetterla è una specie solo aggiornata di sacerdote.

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Quel che non si può contestare – perché altrimenti sì che salterebbe tutto – è il potere del giudice di emettere la sentenza, in buona sostanza di fare il suo lavoro: ma il diritto di contestare che il lavoro è stato svolto male c’è pienamente e come tale dovrebbe essere protetto anziché messo in dubbio. Salvo credere, appunto, che il giudice non possa sbagliare o – ed è anche peggio – che se pure sbagliasse sarebbe vietato contestarglielo. E nei due casi discutiamo della pretesa di far salvo da ogni possibilità di critica un semplice documento pubblico, tuttavia reso sacro dal manto di indiscutibilità che avvolge la persona che l’ha confezionato. Con tutti a dimenticarsi del fatto che il potere di giudicare ed emettere sentenze non è stato conferito ai magistrati da qualche dio, ma dalla società degli uomini in nome dei quali quelle sentenze sono scritte. Tutti a dimenticarsene: e cioè non solo quelli che per sé pretendono questa bizzarra forma di totemistica adorazione, ma anche quelli che la praticano e legittimano ripetendo che le sentenze non si commentano.

È chiaro poi che criticare una sentenza non può implicare il suggerimento che sia legittimo sottrarvisi. Ma non a questo si allude quando si ripete quel ritornello (che le sentenze non si commentano). Il caso di una sentenza ingiusta, purtroppo, deve essere sofferto da chi ne è vittima e dalla società tutta, costretta a sopportare la possibilità che la giustizia sia amministrata malamente. Ma ci si può chiedere di accettare quella sofferenza e quel dovere di sopportazione fin tanto che una sentenza resta una cosa fatta da un uomo: non più quando si rappresenta come un giudizio superiore verso il quale la critica si trasforma in bestemmia.

Iuri Maria Prado

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