Sarebbe stata uccisa con la porta della caserma, poi il suo corpo occultato
“Serena Mollicone è stata uccisa da Marco Mottola”, la storia dell’omicidio della 18enne secondo il pm
“L’autore dell’omicidio di Serena Mollicone è Marco Mottola”. È quanto ha affermato in un aula il pm di Cassino nel corso della requisitoria nel processo per la morte di Serena Mollicone, assassinata il 1 giugno del 2001 nella caserma dei carabinieri di Arce. Un delitto di 21 anni fa che ancora non ha trovato una fine tra incongruenze, depistaggi e testimonianze giudicate false. Marco Mottola è uno tre imputati accusati di omicidio volontario e occultamento del cadavere assieme al padre, Franco, ex comandante della caserma e alla moglie Anna Maria. Gli altri due imputati sono il luogotenente Vincenzo Quatrale e l’appuntato dei carabinieri, Francesco Suprano.
La pm Beatrice Siravo ha ricostruito nella sua requisitoria tutto ciò che accadde quel giorno e come si è arrivati ad identificare in una porta della caserma l’arma con cui sarebbe stata uccisa Serena. “Il cuore del processo è quale sia l’arma del delitto — esordisce il pm, riferendosi alla porta contro la quale sarebbe stata fatta sbattere la testa della ragazza, come riportato dal Corriere della Sera — Quando abbiamo riaperto le indagini con l’ipotesi dell’omicidio avvenuto in caserma e con la perizia sulla porta avevamo poche speranze su un risveglio delle coscienze. L’unica che potesse dirci chi ha ucciso Serena era Serena stessa ma noi siamo arrivati ad avere una prova scientifica solidissima”.
Gli imputati in passato hanno affermato che quei segni sulla porta erano dovuti a un pugno che Marco o Franco Mottola avrebbero dato durante una lite in famiglia. Il pm ha elencato tutti i dati scientifici che sostengono questa “piena compatibilità” e invitato i giudici a “un macabro esperimento”, provare a incastrare il calco del cranio di Serena ricostruito in 3D con la frattura nel panello della porta. Anche le altre analisi sui frammenti di legno, le tracce di colla e vernice rinvenute sul nastro adesivo con cui è stata imbavagliata e legata Serena e nei suoi capelli sono, secondo l’accusa, univoche nel far ritenere che “l’omicidio è avvenuto all’interno della caserma” e che “la porta è l’arma del delitto oltre ogni ragionevole dubbio”.
“L’autore del delitto è Marco Mottola e alla sua responsabilità si arriva anche senza tener conto della pur attendibile testimonianza di Santino Tuzi”. Si tratta del brigadiere poi morto suicida dopo aver rivelato di aver visto Serena entrare in caserma. Dopo aver esaminato oltre 130 testimonianze ascoltate in aula, la pm ripercorre la mattinata di Serena che dopo una visita dal dentista non arrivò mai a scuola. “Serena — è la ricostruzione della procura — dopo il dentista a Sora salì nella Y10 bianca di Marco Mottola per un passaggio, si fermò al bar dove fu vista litigare con lui e poi in piazza ad Arce. Si presentò quindi in caserma per riprendere i libri che aveva lasciato sulla vettura e qui fu aggredita”.
Il movente dell’omicidio sarebbe proprio in quel litigio “anche se non ne conosciamo il contenuto, ma sicuramente non quello sentimentale, dato che Serena era fidanzata e che con Marco non c’era nulla”. Il padre di Serena, Guglielmo, ha sempre sostenuto che la figlia volesse denunciare Mottola jr per la sua nota attività di spacciatore, nella quale godeva della immunità garantita dal ruolo del padre (come ribadito da più testimoni). Una ipotesi ripresa anche dal pm, rilanciando una vecchia testimonianza dell’uomo, il quale ricordò come la figlia avesse discusso anche con il maresciallo Mottola proprio su questo punto. Serena e Marco furono visti litigare anche la sera prima della sua scomparsa.
Poi i depistaggi che il maresciallo Mottola avrebbe messo in atto per proteggere il figlio. La segnalazione dell’auto fu volutamente alterata, dice l’accusa, né mai fu avviata la ricerca di un ragazzo biondo meschato. “Solo il 27 giugno, con 25 giorni di ritardo, Franco Mottola annotò di aver raccolto quella testimonianza, alterandone però il contenuto”. Anche sulla colorazione dei capelli di Marco Mottola tanto contestata dalle difese, la procura di Cassino ritiene di avere le conferme necessarie. Anche la testimonianza di Carmine Belli non fu annotata per prendere tempo. E nascondendo quell’avvistamento, il maresciallo Mottola si sarebbe arrogato la competenza sulle indagini anche se per territorio sarebbero spettate alla caserma di Isola Liri. “Quella di Franco Mottola è una anomalia su scala mondiale, il primo caso di un assassino che indaga su se stesso, avendo ampia mano per depistare le indagini”.
La sua, sottolinea la procura, “non era sciatteria ma volontà di allontanare le indagini dal ragazzo biondo meschato sulla Autobianchi Y10 bianca”. Anzi, nella sua relazione parlò di una Lancia Y rossa. Proprio in virtù di questi depistaggi, Mottola stava per essere trasferito d’ufficio, ma riuscì ad anticipare l’onta chiedendo lui un’altra destinazione. Il rapporto stilato sul suo operato, letto in aula dal pm, parla di “inconsistente apporto informativo alle indagini”, accertamenti “piuttosto lacunosi”, per i quali “la ammissione di superficialità è una spiegazione insoddisfacente”. “Mottola sapeva che il figlio frequentava pusher e consumava droga — è scritto ancora nella relazione — e questo fa sussistere una incompatibilità ambientale che rende necessari provvedimenti disciplinari”.
Poi i drammatici momenti in cui Serena fu sbattuta contro la porta. Franco, rientrato dai preparativi della festa dell’Arma, non se ne allontanò più, al contrario di quello che dice un ordine di servizio falsificato, “perché era impegnato a far morire Serena (tramortita dal trauma cranico ma che si poteva ancora salvare) avvolgendole il corpo con il nastro adesivo”. Ma il pm Siravo fa un’altra rivelazione: “I genitori di Marco, il maresciallo Mottola e la moglie Annamaria nascosero il corpo di Serena uscendo quella notte stessa dalla caserma tra la mezzanotte e l’una”. Una ricostruzione interamente basata sull’analisi dei tabulati telefonici e delle testimonianze.
Infine le testimonianze di Tuzi, il brigadiere che morì suicida dopo aver dichiarato di aver visto Serena in caserma. “Si decise a parlare dopo sette anni — dice il pm — quando in lui nacque il timore di essere arrestato. Rivelatrice in questo senso la conversazione intercettata con la sua amante: ‘Mi vogliono mettere le manette per quello che è successo qua con la ragazza’, dice il brigadiere mentre è in corso l’interrogatorio del collega Suprano. Ai superiori che indagano si mostra sicuro: Quella mattina ha citofonato in caserma una ragazza e una voce di uomo giovane, che suppongo fosse Marco, perché il maresciallo Mottola era fuori per servizio, mi disse all’interfono di farla passare”. Tuzi è credibile, dice il pm, perché “descrive con precisione la borsa a parallelepipedo con delle frange che Serena aveva (come confermano le sue amiche) ma che non fu mai ritrovata”. Nella registrazione fuori verbale del suo interrogatorio Tuzi si lascia andare a uno sfogo: “Se Marco lo schiaffano dentro sono contento”.
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