Potenza della lirica cantava Lucio Dalla. E ancora oggi il melodramma è il linguaggio universale per eccellenza. Nei teatri di tutto il mondo si rappresentano ininterrottamente le opere dei nostri grandi compositori. La lingua italiana, oltre che per Dante e Leopardi, è viva all’estero soprattutto per questo. Non c’è film americano (e non solo) che non utilizzi la musica lirica per sottolineare un’emozione, uno stato d’animo, un ambiente. Chi dimentica la voce della Callas che canta “La mamma morta” dall’Andrea Chenier nel film Philadelphia? Pensiamo a tutta la cinematografia di Woody Allen

Ancora oggi l’opera lirica tocca le nostre corde più intime e ci porta ad avere nostalgia e commozione per quello che siamo stati, per quello che non c’è più. Offre a tutti un ricordo di paradisi perduti che forse non abbiamo mai vissuto.
Nemmeno il covid 19 ha fermato del tutto le stagioni liriche e ogni teatro ha tentato di non mancare all’appuntamento con un pubblico che ormai non è fatto solo di “melomani”. Se le romanze sono sempre le stesse l’opera si è adeguata ai tempi ed oggi si va a vederla anche per gli allestimenti, per le regie, per le scenografie. Le opere non sono più solo degli autori ma anche dei registi: l’Aida di Zeffirelli o le Nozze di Figaro di Strehler (solo per fare degli esempi) costituiscono un’opera nell’opera e si riproducono in quanto tali.

Ma l’opera lirica è fin dagli esordi “multidisciplinare”. Intanto la maggior parte delle vicende raccontate viene da un romanzo o da una novella. Verdi prende a prestito Shakespeare per realizzare le sue migliori opere e c’è chi dice, giustamente, che il suo Otello sia addirittura più efficace di quello del bardo. Sono famose le controversie giudiziarie tra Giovanni Verga e Pietro Mascagni su diritti di Cavalleria Rusticana. Filosofi e scrittori si sono appassionati all’opera lirica: da Nietzsche che vide più di venti volte Carmen a Proust che si entusiasmò per la Traviata di Verdi (preferendola al romanzo di Dumas). Eugenio Montale recensì per anni il cartellone lirico della Scala di Milano.
L’interesse deriva senz’altro dal fatto che tante competenze diverse si intrecciano nell’allestimento di un’opera. Alla musica e al canto, sia dei solisti che del coro (che sono anche attori e attrici), si accompagnano i librettisti, i ballerini (l’opera comique francese impose anche al nostro Verdi una parentesi di balletto tra un atto e l’altro), i mimi, la massa delle comparse, gli scenografi (famosi pittori si sono prestati a realizzare i cartelloni dei vari atti), i grandi registi del teatro e del cinema. Prima ancora ci sono gli artisti dei manifesti pubblicitari (famosi quelli delle opere di Puccini).
E poi sul palco tutto si incastra e si realizza ancora una volta una magia.

Carmen è considerata la quintessenza della Spagna e Butterfly una tragedia giapponese malgrado Bizet e Puccini non ci siano mai stati a Siviglia o a Nagasaki. Potenza della lirica! Riccardo Muti racconta nel suo ultimo libro che quando chiese a Maria Callas di tornare a lavorare con lui, lei rispose con le parole delle eroine che aveva tante volte interpretato: “È tardi…” Ed è questo il titolo scelto da un magistrato napoletano, Eduardo Savarese (È tardi!, ed. Wostek), per raccontarci sette figure di donne protagoniste di altrettante opere liriche. Il titolo è preso in prestito da Traviata e Norma: entrambe pronunciano questa frase. La prima riferita alla propria condizione, la seconda a quella del suo amante Pollione. In entrambe è tardi, è troppo tardi per cambiare il proprio destino. L’opera è senz’altro donna. Anche quando non è nel titolo (e quindi non saluta per ultima!) le figure femminili sono sempre protagoniste della vicenda che si racconta sulla scena. Savarese sceglie l’attesa come fil rouge delle sue eroine: Violetta, Cio Cio San, Carmen, la Contessa, Lucia di Lammermoor, Elektra, Norma, aspettano che la loro vita cambi, che arrivi l’amore, la vendetta, il perdono. Il libro gli offre l’occasione anche per raccontare le grandi interpreti, in primis proprio Maria Callas.

Nessuna delle protagoniste del libro di Savarese è una donna “debole”. In alcuni casi la morte appare come l’unica possibilità per realizzare le proprie aspirazioni o la propria personalità. Carmen muore perché vuole essere una donna libera. All’epoca una figura scandalosa che solo la provenienza “zingara” riesce a far digerire a un pubblico borghese. Violetta, che pure all’inizio voleva essere scandalosamente libera, paga con la morte, come dice Roland Barthes, la sua volontà di essere accettata da quel mondo che pure aveva sfidato. La Lucia di Donizzetti non riuscendo mai ad avere la parola in un modo di maschi che pretendono di decidere il suo destino interpreta quella dissociazione “isterica” che tanto interesserà Freud (che non dimentichiamolo scriverà un saggio fondamentale sulla pazzia di Lady Macbeth). Anche Elektra può essere interpretata come un “caso clinico” oltre che come un caso di vendetta privata.

Cio Cio San muore perché persegue fino in fondo ciò per cui aveva lottato con tenacia e che le era stato ingiustamente negato: essere una moglie americana. E ne aveva tutto il diritto visto che il suo matrimonio con Pinkerton era perfettamente valido. La sua lunga attesa inaugura quello che sarà il secolo dell’attesa: vent’anni dopo la morte di Puccini Beckett porta sulle scene Aspettando Godot. A ben vedere, anche Norma realizza una, pur se macabra, vittoria: muore insieme al suo Pollione di cui ritrova alla fine l’amore. Non è costretta come Medea ad uccidere i suoi figli che riesce a mettere sotto la protezione del padre. Solo la Contessa mozartiana – interprete fedele del suo secolo che affronta con leggerezza e pietà le vicende umane e sentimentali (Così fan tutte docet!) – riuscirà, attraverso la sua clemenza, a costruire un rapporto “vero” con il conte di Almaviva. Le altre, come spesso accade nel melodramma otto-novecentesco, aspettano solo di morire.