Pochissimi esempi virtuosi caratterizzavano sino a qualche anno fa il trattamento penitenziario degli autori di reati sessuali, i c.d. sex offenders, nelle carceri italiane. Mentre la gran parte degli istituti penitenziari si limitava al confinamento nelle sezioni “protette”, in condizioni di semi isolamento, di quei detenuti considerati “infami” dal resto della popolazione detenuta (insieme dunque a forze dell’ordine, collaboratori di giustizia e detenuti transessuali, senza alcuna attenzione rispetto alla necessità di individualizzare il trattamento penitenziario), in alcune carceri milanesi iniziavano progetti di sperimentazione di trattamento psicologico per i condannati per reati di violenza sessuale.

Prima a Opera, con la dott. Marina Valcarenghi e il suo progetto basato su incontri di psicanalisi e psicoterapia collettivi e individuali, poi a Bollate, con interventi inizialmente individuali e poi mano a mano più strutturati e integrati con un patto trattamentale sottoscritto da tutti i detenuti, volto a consentire una parte della socialità in modo condiviso. Una rivoluzione: le adesioni spontanee dei detenuti erano particolarmente utili e furono ottimi i risultati in termini di riduzione della recidiva (peraltro, a dispetto della vulgata sul tema, non particolarmente elevata rispetto ad altre tipologie di reati).

Il buon esempio portava poi ad alcuni progetti sviluppati in autonomia in singoli istituti e al consolidamento del lavoro del CIPM diretto dal prof. Paolo Giulini a Bollate. Venne istituita una vera e propria Unità a trattamento intensificato ex art. 115 DPR 230/00, con progetti di presa in carico anche all’esterno e con la possibilità di ottenere misure cautelari ed alternative ‘ammorbidite’ in caso di emersione di problematiche psicologiche sottese ad ipotesi di reato, da verificare o già oggetto di condanna.

Nel 2006 il primo giro di vite. I reati sessuali vengono introdotti senza distinzione di sorta nell’art. 4 bis OP, con tutte le conseguenze del caso. Non tanto la poco sensata richiesta di escludere collegamenti con la criminalità organizzata (?) per la concessione di misure alternative, quanto la conseguenza indiretta della non sospendibilità dell’ordine di esecuzione per la carcerazione, e quindi nessuna possibilità di una misura alternativa immediata, anche in caso di percorsi psicologici già in essere all’esterno.

Nel 2009 viene corretta la stortura logica dell’esigenza di accertare legami associativi, ma viene anche introdotto un ulteriore automatismo, che cambierà completamente l’approccio punitivo del sistema: la condanna per i reati in questione impone obbligatoriamente un intero anno di osservazione da condurre all’interno delle mura del carcere, a prescindere dall’entità della pena irrogata. Nessuna valutazione discrezionale della magistratura, dell’esecuzione o di sorveglianza, può dunque impedire di trascorrere un anno all’interno del carcere, vanificando eventuali percorsi di reinserimento già intrapresi.

I programmi di trattamento interni divengono dunque un obbligo o comunque una “calda raccomandazione” per i condannati, a prescindere da un’autentica adesione ad un progetto di cura. Oggi le sezioni per i c.d. sex offenders (e anche per l’altra categoria di autori di reati intrafamigliari, i maltrattanti, che non rientra – ancora – nei meccanismi automatici ma che costituisce una fetta amplissima di detenuti) sono molte e i progetti di trattamento specifico si moltiplicano. Nel frattempo, nel 2012, la norma penitenziaria viene ulteriormente modificata con la volontà di incentivare, senza però alcun automatismo, la partecipazione a programmi specifici nel caso di reati commessi a danno di minori.

Infine, il consolidamento definitivo della tendenza alla punizione senza alcuna opzione terapeutica autentica è avvenuto con le norme della legge “Roccella”, tutte tendenti ad aggravamenti di pena e a pesantissimi automatismi estesi all’area delle misure cautelari e di prevenzione. E così i “percorsi di recupero presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati per i medesimi reati”, già introdotti nel 2019 come condizione per la sospensione condizionale della pena, divengono a necessaria frequenza bisettimanale e con verifica di “superamento con esito favorevole”. Un esame, addirittura. Senza neppure verificare se questi corsi siano presenti sul territorio in misura sufficiente e con livelli di prestazione idonei. E non è un caso che proprio su questa disposizione si incardinino le proposte di legge volte ad introdurre la cosiddetta “castrazione chimica”, terapia farmacologica che diverrebbe non obbligatoria, ma caldamente consigliata. Confidiamo che tale prospettiva sia irrealistica, ma altro non farebbe che confermare la tendenza ad una legislazione finalizzata non alla cura ma alla afflittività.

Valentina Alberta

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