Andrée Ruth Shammah, regista teatrale – formatasi con Giorgio Strehler, Franco Parenti e Giovanni Testori – e direttrice artistica del teatro Franco Parenti di Milano, accoglie nel suo spazio, autentica icona della cultura milanese, l’incontro di oggi con Carlo Calenda e Matteo Renzi “Due popoli, due Stati. Un destino”. «Trovo importante che si sia scelto un teatro. Un luogo chiuso: perché la piazza richiede una semplificazione urlata, non ragionata. Un teatro rende possibile il confronto, il ragionamento, il dialogo. L’idea di stare in tanti per cercare di approfondire tutti gli aspetti in campo è molto importante se si vogliono fare passi avanti. Se si smette di urlare, forse si inizia a capire come si possono curare quelle ferite che ci portiamo dentro tutti, gli uni e gli altri».

Serve un luogo di incontro, e il teatro lo è per antonomasia.
«Ho fiducia nelle parole, nel dibattito che si può fare tra persone, fuori dai social. Il linguaggio digitale non prevede i toni, i registri, le emozioni. La violenza che sento nella semplificazione delle aggressioni fa paura: non articolare un pensiero lo rende comunque violento. Dirsi pro-Pal, per esempio, cosa significa? Si fanno tifoserie da stadio. Andiamo oltre e torniamo alle parole. Chi sostiene le ragioni di Hamas non è pro-Pal, è pro-Hamas. E chi parla di genocidio usa un termine violentemente improprio. È una parola che non si può usare, semplicemente sbagliata e volutamente offensiva».

Così come si possono operare dei distinguo sulla gestione della crisi in Medio Oriente…
«Dire che un governo fa delle scelte non condivisibili, come fa metà della popolazione israeliana, protestando, rende chiara come quella di Israele sia una società democratica vera, cioè composita, articolata e plurale. Quando mi dicono “Voi ebrei” io rispondo: “Voi chi?”. Ogni due ebrei ci sono tre opinioni. Ed è una ricchezza».

La preoccupa il clima di odio che sente crescere, anche nella sua Milano?
«Nella mia Milano ieri, uscendo di casa, ho trovato una tela bianca, appoggiata in bella vista su un cestino vicino a casa mia. “Fuori gli ebrei dall’Italia”. Mi sono avvicinata e dietro ho letto: “Ebrei maiali, a morte tutti”. L’ho fotografato. E glielo racconto per dire che se la manifestazione del 7 vuole portare un contributo alla pace, non può farlo rigettando un tema come quello dell’antisemitismo e accusando Israele di andarsi a cercare guai per aver eletto quello che definiscono “un assassino”. Mi dicono che Renzi si sia opposto alla manifestazione del 7 proprio perché i suoi promotori si sarebbero rifiutati di inserire nella loro piattaforma il contrasto del nuovo antisemitismo».

Come funziona il nuovo antisemitismo?
«Con cerchi concentrici in rapida espansione. Prima si dice che il problema vero si chiama Netanyahu. Poi si allarga il focus: il punto è lo Stato di Israele, la cui esistenza minerebbe, viene detto, le stesse basi di civile convivenza tra ebrei e musulmani in quella regione. Infine si arriva a tutti gli ebrei della diaspora, a quel “voi ebrei” che include ogni persona, ogni soggettività, ogni pensiero ammassandolo in una unica “entità”, come si dice».

La spaventa quello slogan “Dal fiume al mare Israele deve sparire”?
«Mi atterrisce. Perché come pensano di far scomparire un popolo, nella pratica? Con una bomba nucleare, con una deportazione di massa di milioni di israeliani? La maggior parte di chi scandisce quello slogan non ne ha idea. Siamo arrivati alla follia, quando si dice “Due popoli, due Stati”, di sottintendere che perfino Israele avrebbe diritto a esistere, dando per scontato che quella zona sia la Palestina e che l’estraneo, l’invasore sia il popolo di Israele. Un rovesciamento della realtà. Intanto Israele esiste».

Israele è diventato un capo espiatorio che fa comodo a tutti, ormai?
«Non c’è più Berlusconi, che era un formidabile collante per la sinistra. E allora serve un nemico pubblico, un nuovo capro espiatorio. Il primo capro espiatorio si chiama Netanyahu, il secondo Israele, il terzo l’ebraismo della diaspora. Su Netanyahu si leggono sui social espressioni irripetibili, che trasudano un odio viscerale: va “ucciso e appeso a testa in giù”. Un trattamento rispetto al quale per Mussolini si usarono i guanti bianchi. Il giorno dopo aver impiccato Netanyahu, individueranno subito un nuovo nemico pubblico. E quando dicono “Gli israeliani”, poi, lo sanno che tra i cittadini israeliani c’è un milione di arabi, non ebrei? Se la prenderebbero anche con loro, quando lo avessero capito?»

Oggi il teatro Parenti è protagonista del confronto. La cultura, il teatro possono aiutare a combattere il razzismo e il pregiudizio antisemita?
«Mi piacerebbe dire che è così, ma non è vero. I tedeschi che vollero il nazismo erano colti. Molti generali nazisti amavano Beethoven, leggevano la grande letteratura. Strehler diceva che il teatro cancella la barbarie: non è vero. Quello che si può continuare a fare è lavorare sul bisogno del dubbio. Far capire che nessuno ha in mano il bene di tutti gli altri. Scegliere il bene avendo la presunzione che quel che facciamo è fatto per il bene dell’umanità è sempre molto pericoloso».

C’è un elemento della cultura ebraica da cui possiamo trarre un insegnamento, in questo momento di opposti estremismi?
«Un insegnamento su tutti: quando c’è un rabbino che prende la Torah e spiega una cosa, poi ce n’è un altro che prende la Torah e dimostra esattamente il contrario. E poi un terzo interviene e fa capire che entrambi avevano torto. Portando a capire che tutti e tre avevano ragione. Questa è la forza della cultura ebraica, far capire che tante cose possono essere vere, che tanti possono avere opinioni molto diverse, e ciascuno ha una parte di ragione. Non aiuta essere colti, conoscere la musica o l’arte. Un animo semplice può avere dentro di sé la complessità. Io voglio difendere i valori dell’Occidente e so che per farli vincere davvero bisogna che nessuno pensi di prevalere con la forza sull’altro».

Avatar photo

Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.