Prima il suono delle chiavi che incessantemente aprono e chiudono le celle. Poi, il passo felpato e svelto degli agenti penitenziari, poi la campanella che indica la fine e l’inizio dell’ora d’aria. Sono i primi suoni che imparano a conoscere e a distinguere i bambini che vivono dietro le sbarre. Detenuti anche loro, come le madri. Sono in prigione, esattamente come i grandi. Ma loro sono piccoli e non dovrebbero conoscere il male, il grigio, il vuoto, le sbarre fredde e l’odore dell’aria di un penitenziario. Eppure, oggi in Italia ci sono ancora 23 bambini in carcere con le proprie madri. Si era detto mai più bambini dietro le sbarre.

E invece… E invece ci sono, vivono in prigione, imparano le regole del carcere, conoscono la privazione fin da subito. È questo accettabile in un Paese che si definisce civile? È possibile che i figli debbano pagare le “colpe” delle madri? No. E non si risentano i giustizialisti sempre pronti a sventolare le manette e a dire la solita frasetta: la prossima volta, la madre ci pensava due volte prima di sbagliare. Bene. La madre. E i bambini che colpa hanno? Mica hanno scelto loro dove nascere e mica hanno scelto loro di vivere in una cella senza i colori alle pareti e i peluche sul letto.

E così dalla Campania è partita una proposta per modificare il codice di procedura penale per consentire alle mamme detenute, che hanno figli con un’età massima di 10 anni, di scontare la pena in case di accoglienza. L’altro giorno il Consiglio regionale della Campania, presieduto da Gennaro Oliviero, ha approvato all’unanimità una proposta di legge. “I bambini che cresceranno dietro le sbarre – ha detto il garante campano per i diritti delle persone private della libertà, Samuele Ciambriello – non dimenticheranno mai questa esperienza. Le parole che usano maggiormente sono: apri e chiudi”. Chiudiamo il sipario su una condizione che non può essere propria di un Paese Civile. Mai più bambini in carcere.

Francesca Sabella

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